Il presidente Andrea Vaccari presenta l'associazione fAMY, che sostiene le persone con questa grave malattia causata dall'accumulo nei tessuti di una proteina tossica e insolubile
BOLOGNA – Immaginate, per assurdo, di mangiare un piatto di plastica. Probabilmente riuscireste a non sentirvi male e ad eliminarlo come se fosse commestibile. Ma se ripetete lo stesso gesto tutti i giorni, la plastica si accumulerà nel vostro corpo, con gravi conseguenze facili da immaginare. Accade più o meno lo stesso in una malattia rara e invalidante chiamata amiloidosi, in cui ad accumularsi è una sostanza proteica insolubile, nota, appunto, come amiloide.
In Italia ci sono 356 casi, in 120 famiglie, di persone affette dalla forma ereditaria di questa patologia, e per loro è attiva dal 2013 l'associazione nazionale fAMY, diventata Onlus nel gennaio 2016. Con circa quaranta iscritti e cinque persone nel consiglio direttivo, fAMY ha fra i suoi clinici di riferimento il prof. Claudio Rapezzi di Bologna e il prof. Giampaolo Merlini di Pavia. La prima uscita pubblica dell'associazione come Onlus è stata proprio pochi giorni fa, in occasione del congresso dal titolo “Cardiomiopatie rare e scompenso cardiaco: cosa dobbiamo sapere e come dobbiamo trattarle”, che si è svolto il 31 marzo e il 1 aprile a Giardini Naxos (Messina).
“Già da due anni ci incontriamo con la federazione europea, ormai divenuta quasi mondiale, per aggiornarci sui risultati dei nuovi trial, verso i quali nutriamo grande speranza. Esistono Stati con un gran numero di pazienti, come il Brasile e soprattutto il Portogallo, con 1.500 persone affette solo a Lisbona”, ha spiegato il presidente Andrea Vaccari. “Ora l'associazione riunisce principalmente i pazienti dell'Ospedale Sant'Orsola di Bologna, ma contiamo di raddoppiare gli iscritti il prossimo anno. Fra le prossime iniziative, stiamo organizzando un convegno sulla patologia che si svolgerà a fine ottobre a Bologna”.
L'amiloidosi insorge in media a 30-40 anni: i sintomi iniziali possono essere tunnel carpale, crampi e dolori alle gambe, secchezza della bocca e problemi respiratori. Poi, con il passare del tempo, l'accumulo di questa sostanza tossica nei tessuti causa l'ingrossamento del cuore e l'affaticamento del fegato e dei reni, portando al trapianto o alla dialisi. Non solo: spesso insorgono demenza, problemi al tatto, all'udito e alla vista che possono portare alla cecità. Esiste un farmaco, il Tafamidis, in grado di rallentare la progressione della malattia, ma è efficace perlopiù nei suoi stadi iniziali.
“La ricerca è fondamentale – prosegue Andrea Vaccari – ma ci sono altri aspetti rilevanti, come quello psicologico: i pazienti non possono pianificare la propria vita, la vivono giorno per giorno. Inoltre, nel caso di pazienti con figli, pesa molto la consapevolezza di aver trasmesso loro la malattia: se uno dei due genitori è positivo, il figlio può esserlo o meno; forse esiste qualche raro portatore sano, ma io non ne ho mai visto uno. Per questi motivi i pazienti hanno necessità di un supporto psicologico e di consigli sulla procreazione. Infine, sarebbero utili dei trial clinici da effettuarsi prima che si manifesti la malattia”.
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