Il tema è stato al centro del quarto incontro AmyTour, svoltosi in edizione digitale lo scorso 16 ottobre
“È la prima volta che partecipo a questo evento, e credo che sia un’importante occasione di confronto tra pazienti e specialisti in diversi campi”, osserva Alessandro Barilaro, dirigente medico presso l’U.O. Neurologia 2 dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze, intervenuto al quarto appuntamento del ciclo AmyTour, dedicato all’amiloidosi. “Per una patologia così complessa è fondamentale un approccio multidisciplinare, che permetta di vedere la malattia da diversi punti di vista”.
Le amiloidosi, infatti, sono un gruppo molto eterogeneo di patologie e necessitano di un metodo di trattamento integrato e pluridisciplinare. Per questa ragione, Osservatorio Malattie Rare (OMaR) e fAMY Onlus (Associazione Italiana Amiloidosi Familiare Onlus) promuovono il progetto “AmyTour - Pazienti e medici dialogano sull’amiloidosi”: una serie di incontri realizzati con l’obiettivo di affrontare i vari aspetti della patologia, in un contesto informale e con l’aiuto di esperti in differenti campi. I primi tre incontri dell'AmyTour si sono svolti a Roma (15 dicembre 2018), a Messina (18 maggio 2019) e a Milano (21 settembre 2019); il quarto incontro, datato 16 ottobre 2020, è stato organizzato in modalità digitale, grazie al contributo non condizionato di Akcea, Alnylam e Pfizer.
Amiloidosi è il termine usato per definire quell’insieme di malattie caratterizzate dall'accumulo, spesso in sede extracellulare, di un materiale proteico anomalo, detto amiloide. Questi aggregati di proteine alterate si depositano nei tessuti sotto forma di fibrille, causando disfunzioni anche gravi degli organi interessati dal processo (principalmente cuore, reni, apparato gastrointestinale, fegato, cute, nervi periferici e occhi). Si stima che in Italia, ogni anno, vengano registrati circa 800 nuovi casi di amiloidosi. Dal 2019, tuttavia, grazie agli straordinari progressi in campo farmacologico, la prognosi dei pazienti affetti da questa malattia è in continuo miglioramento.
“Questo è stato un anno difficile, ma anche estremamente significativo per chi si occupa di questa patologia”, afferma la dottoressa Laura Obici, responsabile del Centro per lo Studio e la Cura delle Amiloidosi Sistemiche, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. “Dal 2020 in Italia sono disponibili nuovi trattamenti e, nonostante il periodo complesso che stiamo attraversando, sono in corso trial clinici per lo sviluppo di nuove terapie. Per l’amiloidosi ereditaria con polineuropatia, ad esempio, sono finalmente prescrivibili e soggetti a monitoraggio AIFA due farmaci soppressori della sintesi di transtiretina: patisiran e inotersen. Inoltre, sono anche disponibili alcuni trattamenti sperimentali, come vutrisiran e AKCEA-TTR-Lrx o la possibilità della somministrazione di patisiran in pazienti che hanno una prosecuzione della neuropatia in seguito al trapianto di fegato”, spiega la dottoressa Obici. “Per quanto riguarda, invece, le due forme di cardiomiopatia - quella ereditaria da transtiretina e quella wild type - nel 2020 è stato approvato in Europa il trattamento con tafamidis, molecola che ha documentato una chiara efficacia nel modificare la storia naturale della malattia, aumentando la sopravvivenza e riducendo il numero di ospedalizzazioni per eventi cardiovascolari. La terapia con tafamidis, purtroppo, non è ancora in indicazione e siamo in attesa della rimborsabilità da parte di AIFA. Il farmaco è disponibile solo nell’ambito di un protocollo di uso compassionevole”.
“Questi nuovi medicinali forniscono dati davvero incoraggianti”, prosegue Laura Obici. “Tuttavia, è fondamentale ricordare che queste molecole arrestano il progredire della malattia, ma non sono in grado di far tornare indietro le lancette dell’orologio: le funzionalità che sono andate perse prima dell’inizio del trattamento non sono recuperabili. Per questo, la diagnosi precoce assume un valore imprescindibile”.
Anche Francesco Cappelli, cardiologo presso il Centro di riferimento regionale della Toscana per lo studio e la cura delle amiloidosi, AOU Careggi di Firenze, e Alessandro Barilaro, neurologo presso il medesimo ospedale, sono d’accordo sull’importanza di una diagnosi tempestiva per poter iniziare il trattamento quanto prima. “Dobbiamo imparare a focalizzarci su segni e sintomi che possono farci sospettare questa patologia, anche prima che compaia in maniera manifesta”, spiega il dottor Cappelli. “La sindrome del tunnel carpale, ad esempio, è capace di anticipare l’esordio dell’amiloidosi di alcuni anni, per cui può essere considerata come un sintomo anamnestico. Un altro importante indizio è la rottura atraumatica dei tendini, soprattutto lo strappo del tendine del bicipite brachiale. La deposizione di amiloide nel cuore, inoltre, rende l’organo meno performante. È fondamentale prestare attenzioni ai primi sintomi percepibili di questo scompenso: mancanza di respiro, stanchezza, difficoltà di digestione e perdita di appetito, distensione addominale, edema degli arti inferiori, turgore delle vene giugulari, cianosi delle mani. Sono tutti segni abbastanza facili da rilevare, che gli stessi pazienti possono imparare a individuare sul loro corpo”.
“Dal punto di vista neurologico - aggiunge il dottor Alessandro Barilaro - ci sono altri segnali che ci possono avvisare con un po’ di anticipo della presenza della malattia. Il dolore neuropatico, ad esempio, è un sintomo a esordio precoce. A causa dell’interessamento delle piccole fibre, il paziente sperimenta sensazioni di bruciore, scossa elettrica e punte di spillo o, viceversa, ipoestesia termica, cioè una diminuzione della normale sensibilità agli stimoli di calore. Un’altra avvisaglia spesso ignorata sono i sintomi disautonomici, indice di una compromissione delle funzioni automatiche di regolazione, come il controllo termico, della pressione, della motilità gastrointestinale o della sudorazione. Infine, soprattutto nelle forme di amiloidosi a esordio tardivo, un sintomo precoce è la polineuropatia sensitiva, caratterizzata dal danneggiamento o dal malfunzionamento simultaneo di più nervi sensori. Porta a sensazioni di instabilità posturale, formicolii e pizzicori, senso d’intorpidimento, perdita dell’equilibrio e della capacità di coordinazione”.
“Saper individuare questi sintomi precocemente significa riuscire a guardare la persona nella sua interezza”, conclude il dottor Cappelli. Questo permette di risparmiare ai pazienti anni di tribolazioni in attesa di una diagnosi che, quando arriva, per quanto motivo di sconforto, viene spesso accolta come una liberazione. È questa l’esperienza raccontata da Giuseppe Todaro, in una video-testimonianza trasmessa durante il quarto incontro AmyTour. “Ho scoperto la malattia un anno fa, ma sono almeno sei anni che presento i sintomi”, spiega Todaro. “Quando finalmente la diagnosi è arrivata, è stata come una liberazione, perché finalmente potevo dare una spiegazione al malessere che provavo”.
“Il tempo, per un paziente con amiloidosi, è prezioso e non va sprecato”. È quanto afferma Andrea Vaccari, Presidente dell’associazione fAMY Onlus e persona affetta dalla malattia. “Bisognerebbe cercare di accelerare alcuni aspetti, soprattutto burocratici. Sarebbe di grande aiuto, ad esempio, riuscire a velocizzare i tempi che intercorrono tra l’approvazione dell’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali) e l’effettiva possibilità di somministrare il farmaco. A volte, prima che un farmaco possa essere prescrivibile passano anni. Non dobbiamo dimenticarci che, per un paziente affetto da amiloidosi, anche solo sei mesi possono fare una grande differenza. Io, durante questo periodo di COVID-19, in cui la sanità ha rallentato tutte le pratiche che non erano strettamente legate all’emergenza, ho perso l’uso della mano destra. Per una persona che già presenta invalidità alle gambe è terribile: avrei preferito mettere il piede su una mina”.
La testimonianza di Andrea Vaccari ci ricorda come l’emergenza che stiamo affrontando stia mettendo a dura prova la Sanità italiana, con effetti a volte devastanti sulla vita dei pazienti. Tuttavia, come dimostra il racconto del dottor Marco Canepa, cardiologo presso l’Ospedale Policlinico San Martino IRCCS di Genova, il contesto emergenziale potrebbe far nascere buone pratiche utilizzabili anche in futuro. “Il principale danno collaterale del Coronavirus è stato il cambio di percezione sulla natura dell’ospedale: non più visto come il posto dove ci si cura, ma come il luogo dove ci si infetta. Questo ha comportato un drastico calo degli accessi al pronto soccorso e una crescente paura dell’ospedalizzazione. I pazienti tendono a ignorare i sintomi, o ad interpretarli in maniera deviata, e talvolta questo ha portato a un ricovero tardivo. Per cercare di evitare questo problema, a Genova, nei due ambulatori che seguo, con pazienti affetti da ipertrofia cardiaca e amiloidosi, abbiamo adottato un approccio proattivo: piuttosto che chiudere tutte le visite in modo rigido abbiamo mandato una lettera alla direzione sanitaria chiedendo di selezionare con una telefonata l’accesso dei pazienti all’ambulatorio. Durante i colloqui telefonici si cercava, seguendo uno schema, di stabilire quali fossero i pazienti stabili e quali, invece, fossero instabili. Quelli stabili venivano seguiti con un follow-up telefonico, posticipando le visite programmate; a quelli instabili, invece, veniva permesso di arrivare in ospedale in sicurezza. In questo modo siamo riusciti a non interrompere nessuno dei trattamenti indirizzati ai pazienti con amiloidosi cardiaca e il nostro ospedale si sta attrezzando con nuovi servizi di televisita”.
“Questo approccio, obbligato dalle circostanze, potrebbe essere utilizzato anche in un futuro”, conclude Marco Canepa. “L’attivazione di percorsi di telemedicina, calibrati sulle necessità del singolo individuo, come le televisite o l’utilizzo di dispositivi di monitoraggio e cura domiciliare, potrebbe semplificare la gestione dei pazienti complessi e migliorare l’interazione medico-malato”.
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