Ricerca amiloidosi

Il Prof. Giampaolo Merlini (Pavia): “Una corretta ricerca della proteina che è alla base della malattia è ciò che permette di avviare la giusta terapia”

A metà dell’Ottocento, Rudolf Virchow, considerato il padre della patologia cellulare, utilizzò il termine latino amiloideus per descrivere la caratteristica deposizione negli organi di un’anomala sostanza, apparentemente amorfa, responsabile di un vasto insieme di sintomi nei pazienti. Inizialmente si riteneva che tale sostanza contenesse amido: sebbene tale informazione sia stata smentita, il nome amiloidosi  è rimasto a indicare tutte le patologie causate dall’accumulo nei tessuti di proteine fibrillari con struttura a foglietti beta. Di questo ampio gruppo di malattie fa parte anche l’amiloidosi da catene leggere (amiloidosi AL).

LA PATOLOGIA

“Quello delle amiloidosi è un ampio insieme di malattie rare che arriva a colpire circa 12-15 individui per milione ogni anno”, spiega Giampaolo Merlini, professore di Biochimica Clinica e fondatore del Centro per lo Studio e la Cura delle Amiloidosi Sistemiche della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia. “L’amiloidosi causata da catene leggere (amiloidosi AL) è dovuta alla sovrapproduzione, da parte delle plasmacellule, di un particolare frammento delle immunoglobuline”. Le immunoglobuline, comunemente note come anticorpi, hanno infatti una struttura a ipsilon data dalla combinazione di due tipi di elementi, le catene pesanti e leggere. Queste ultime possono essere prodotte in eccesso e, a causa di mutazioni, acquisiscono una forte propensione ad aggregarsi e a depositarsi, sotto forma di fibrille, in tutti gli organi, ad eccezione del sistema nervoso centrale.

“Le fibrille possono essere degradate, ma molto lentamente”, riprende Merlini. “Quindi, in presenza di una persistente ed eccessiva produzione di catene leggere anomale, i depositi aumentano progressivamente, con rapido deterioramento della funzione degli organi vitali colpiti, fra cui cuore, rene, fegato, intestino, sistema nervoso periferico e tessuti molli. Ne risultano scompenso cardiaco con debolezza e fiato corto anche per minimi sforzi, bassa pressione arteriosa, insufficienza renale con gonfiore degli arti inferiori, ittero, diarrea, dolori urenti alle estremità, ingrossamento della lingua e porpora attorno agli occhi, al viso o al collo. Raramente un paziente presenta tutte queste manifestazioni: le più frequenti sono l’insufficienza cardiaca e renale. Potremmo dunque pensare all’amiloidosi AL come a un rubinetto che perde acqua in continuo, fino ad allagare tutta la casa”. Ecco perché occorre individuare precocemente la malattia, in modo tale da limitare il danno agli organi e recuperarne la funzione.

LA DIAGNOSI

Per identificare in modo inequivocabile l’amiloidosi AL, il principio cardine consiste nel procedere seguendo gli appropriati metodi diagnostici: oltre all’elettroforesi del siero, che identifica meno della metà delle catene leggere amiloidi, è necessario eseguire anche l’immunofissazione del siero e delle urine e la misura delle catene leggere libere circolanti. Con questo approccio si riescono ad identificare tutte le catene leggere dannose. “Successivamente, occorre dimostrare la presenza dei depositi fibrillari nell’organismo e l’approccio più utilizzato è quello dell’aspirato di grasso peri-ombelicale”, prosegue il professor Merlini. “È una pratica semplice, innocua e sicura, che consiste nell’aspirazione, con ago sottile, di un campione di grasso dalla regione adiposa intorno all’ombelico. Una parte dell’aspirato viene colorata con il rosso-Congo, un colorante per cui la sostanza amiloide ha una forte affinità e che, una volta sottoposto a luce polarizzata, permette di dimostrare bene il viraggio del colore delle fibrille dal rosso al verde brillante”. Questo tipo di test è dotato di un’elevata sensibilità e ha valenza diagnostica; tuttavia, non esclude il ricorso a indagini più approfondite per identificare con certezza la proteina che forma le fibrille.

“Infatti – aggiunge Merlini – tutto ciò può non bastare ancora, perché nelle amiloidosi sistemiche sono oltre una trentina le proteine che possono formare il deposito amiloide e bisogna caratterizzarne con precisione la natura, poiché la terapia varia a seconda del tipo di proteina. Perciò, una parte del grasso aspirato viene utilizzata per un’approfondita tipizzazione in studi di proteomica, con tecniche di spettrometria di massa: questo consente di stabilire con precisione il tipo di amiloidosi”.

Tutto ciò è fondamentale per evitare gravi errori terapeutici: ad esempio, sia l’amiloidosi AL che l’amiloidosi causata da transtiretina, una proteina prodotta dal fegato, possono manifestarsi con insufficienza cardiaca, ma il trattamento delle due patologie è radicalmente diverso. L’amiloidosi cardiaca da transtiretina può essere diagnosticata sulla base della sola scintigrafia, con traccianti utilizzati per lo studio dell’osso, senza biopsia, in assenza della catena leggera. Tuttavia, anche una piccola percentuale di pazienti con amiloidosi AL può risultare positiva alla scintigrafia. “Esiste dunque il rischio di confondere queste due malattie”. rimarca Merlini. “Pertanto, nella diagnosi di amiloidosi AL è sempre raccomandata l’esecuzione di tutti gli esami indicati, evitando di basarsi unicamente sull’elettroforesi delle proteine”.

L’IMPORTANZA DEL FATTORE TEMPO

Il prof. Merlini ha iniziato ad occuparsi di amiloidosi a metà degli anni Ottanta, quando ancora non esistevano trattamenti efficaci e una diagnosi di amiloidosi AL aveva un significato inesorabilmente infausto. Oggi, per fortuna, la situazione è radicalmente cambiata, con nuovi e potenti strumenti diagnostici e lo sviluppo di farmaci in grado di modificare la storia naturale della malattia. “Lo scorso anno, per l’amiloidosi AL è stato approvato un trattamento che include un anticorpo anti-plasmacellule, daratumumab, associato ai chemioterapici ciclofosfamide e bortezomib e a cortisone”, spiega Merlini. “Questa combinazione di farmaci produce la completa scomparsa delle catene leggere in una quota di pazienti superiore al 50%, con recupero della funzione del cuore e dei reni in circa la metà dei pazienti”.

Questo importante progresso terapeutico impone ancor di più l’esigenza di giungere il prima possibile a una diagnosi di malattia. Considerando che l’amiloidosi AL è una condizione progressiva, il fattore critico è dunque il tempo: anche poche settimane di ritardo diagnostico possono fare la differenza, in peggio, nel percorso di cura del paziente. “Inoltre – conclude il prof. Merlini – essendo l’amiloidosi una patologia rara, la creazione di una rete di professionisti risulta di fondamentale importanza per diffondere la conoscenza della malattia e garantire un trattamento omogeneo in tutta Italia”.

 

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