Un esperto nel campo della cura delle emofilie fa il punto della situazione delle terapie avanzate

Tra le malattie rare l'emofilia è una delle più studiate degli ultimi decenni, i meccanismi molecolari che la causano sono stati indagati a fondo e per i pazienti sono disponibili diverse opzioni terapeutiche.
La terapia attuale si basa sull'uso di prodotti plasma-derivati, trattati in modo da inattivare i virus, oppure dei più recenti fattori di coagulazione ricombinanti, che non contengono proteine di origine animale. Negli ultimi anni è stata fatta molta strada in questa direzione e i prodotti di oggi sono caratterizzati da un'emivita più lunga e sono in grado di sviluppare meno inibitori di quelli di pochi anni fa.


Va anche detto che l'emofilia, essendo una malattia monogenica, cioè causata dalla mutazione di un solo gene, è un'ottima candidata per lo sviluppo di terapie avanzate, quali la terapia genica, quella cellulare e l'ingegnerizzazione dei tessuti. Queste strategie, sebbene la ricerca sia ancora agli inizi, potrebbero rappresentare il futuro della cura dell'emofilia e superare le limitazioni dei prodotti attuali.

Il dottor Antonio Liras, ricercatore al Dipartimento di Fisiologia dell'Università Complutense di Madrid, fa il punto della situazione sulle ultime scoperte e sulle prospettive future di queste terapie avanzate, in una review pubblicata sull'Orphanet Journal of Rare Diseases.

Terapia genica:
Con terapia genica si intende l'impianto, attraverso l'uso di vettori virali e non virali, di cellule geneticamente modificate, in cui il gene mutato viene sostituito con uno sano in grado di generare una proteina funzionale,
Il primo esempio di terapia genica con vettori lentivirali risale al 2007, quando Brown e colleghi ottennero un aumento del 10 per cento di attività del fattore IX in topi modello per l'emofilia B, fino a 280 giorni dopo la somministrazione. Più recentemente Ramezani, studiando l'emofilia A sempre in modelli murini, ha ottenuto l'aumento dei livelli di fattore VIII per 6 mesi, senza lo sviluppo di risposta immunologica.
I vettori adeno-associati restano però la scelta più promettente per quanto riguarda la sicurezza, e nel 2011 Nathwani e colleghi hanno completato uno studio clinico pionieristico, somministrando a pazienti affetti da emofilia B grave una dose di vettore contenente il gene per il fattore IX in grado di trasdurre le cellule epatiche. L'espressione del fattore IX è risultata aumentata dal 2 al 11 per cento, sufficiente a convertire la forma grave in forma moderata. Uno studio recentissimo, pubblicato su Blood nel 2012 da Buchlis e colleghi, riporta invece i risultati di uno studio che ha rilevato l'espressione di fattore IX nei muscoli scheletrici di un paziente affetto da emofilia B 10 anni dopo la terapia con vettore adeno-associato.

Un'alternativa potrebbe essere l'uso di composti che abbiano come target le piastrine, in questo modo si potrebbe ottenere il rilascio di fattori di coagulazione nel sito di emorragia ed evitare l'effetto degli inibitori presenti nel plasma del paziente. Recentemente la ricerca si è anche spostata sulle tecniche non virali, più sicure sebbene non efficaci come le strategie virali. Un esempio è la nucleofezione, un tipo di trasfezione in grado di trasportare il DNA esogeno direttamente nel nucleo della cellula target.

Terapia cellulare:
La terapia cellulare nel caso dell'emofilia si è basata fino ad oggi sul trapianto di cellule sane nel tentativo di rimediare a una carenza di fattore di coagulazione. Finora questa tecnica è stata sviluppata con cellule staminali adulte e, più recentemente, con cellule parzialmente differenziate da iPS, cioè cellule staminali derivate artificialmente da cellule non pluripotenti.
Una ricerca di Follenzi e collaboratori del 2008 ha dimostrato che il trapianto di cellule endoteliali epatiche in topi modello per l'emofilia A è in grado di riportare a livelli normali il fattore VIII e di correggere la patologia.
Xu nel 2009 ha invece generato delle iPS da fibroblasti della coda di topi e le ha poi differenziate in cellule endoteliali in grado di esprimere il fattore di coagulazione. In seguito al trapianto di queste cellule in topi affetti da emofilia A, i livelli di fattore sono aumentati del 12 per cento nei 3 mesi successivi. Un esperimento simile condotto da Alipio e colleghi ha permesso di osservare buoni livelli di fattore fino a un anno dopo il trapianto.

L'ultimo caso analizzato nella review riguarda l'applicazione di queste strategie avanzate nelle cure palliative per i danni articolari causati dalle artropatie tipiche dell'emofilia. In particolare l'impianto di condrociti e cellule staminali mesenchimali modificati geneticamente può giocare un importante ruolo nella riparazione delle lesioni della cartilagine, grazie alla grande capacità di differenziarsi e al dimostrato effetto terapeutico.


 

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