Il punto su diagnosi e terapia è stato fatto il 1 e 2 dicembre a Firenze
Presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Careggi di Firenze è attivo il Centro di Riferimento Regionale dedicato alla malattia di Anderson-Fabry, una patologia rara dovuta ad accumulo lisosomiale, geneticamente determinata e sistemica che, se non diagnosticata precocemente e correttamente trattata, può provocare una grave compromissione multiorgano con danni cardiaci, renali e neurologici. Attualmente, il Centro fiorentino ha in carico circa sessanta pazienti, di ambo i sessi, provenienti sia dalla Regione Toscana sia dal resto del territorio nazionale.
“In Toscana e Umbria è attivo, dal 1 novembre 2014, un progetto pilota di screening neonatale per la malattia di Anderson-Fabry presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Meyer – U.O. Malattie Metaboliche e Muscolari ereditarie - Centro Screening neonatale. Si esegue un test enzimatico su goccia di sangue neonatale, grazie al quale la patologia viene indagata”, spiega la Dr.ssa Maria Alice Donati, responsabile dell’Unità Operativa Malattie Metaboliche dell’Ospedale Meyer di Firenze. “Hanno aderito al progetto tutti i Centri Nascita della Regione Umbria. In Toscana alcuni Centri non hanno aderito per problematiche organizzative e, al 31 ottobre 2017, sono stati sottoposti a screening circa 61.000 neonati i cui genitori hanno dato consenso ad eseguire il test. Dall’inizio del progetto di Screening Neonatale ad oggi, abbiamo ottenuto 15 nuove diagnosi. In caso di risposta positiva, il neonato viene preso in carico presso il Centro, viene inserito nel programma di follow-up e si esegue lo studio familiare. Così facendo, è stato possibile diagnosticare secondariamente numerosi pazienti adulti, alcuni dei quali già sintomatici ma ignari della malattia familiare”. Esiste, pertanto, una stretta collaborazione con il Centro di Riferimento pediatrico della UO Malattie Metaboliche del Meyer, coordinato dalla Dr.ssa Maria Alice Donati, per la presa in carico multidisciplinare dei pazienti diagnosticati in età adulta o dei pazienti pediatrici che sono diventati adulti.
“La maggior parte delle diagnosi proviene ancora da pazienti adulti che presentano, nella maggior parte dei casi, una concomitante sintomatologia renale, neurologica o cardiaca”, chiarisce la Dott.ssa Ilaria Tanini, medico internista della Unit Cardiomiopatie dell'Ospedale Careggi, diretta dal Dott. Iacopo Olivotto. “Circa il 10% dei pazienti che vengono indirizzati al nostro Centro con un’ipertrofia del ventricolo sinistro (ovvero un ispessimento delle pareti cardiache, prevalentemente a carico di una porzione del cuore) risultano poi essere affetti dalla malattia di Anderson-Fabry. Prima di poter giungere alla diagnosi definitiva vengono escluse tutte le altre possibili cause di ipertrofia cardiaca, anche se, nel nostro Centro, siamo orientati alla ricerca delle patologie genetiche come la Anderson-Fabry, cosa che, fino ad una quindicina di anni fa, non sarebbe stato pensabile. Oggi, di fronte a un paziente con sintomatologia cardiologica, nefrologica o neurologica per cui siano state escluse le cause più comuni, andiamo ad effettuare, in tempi brevi, il dosaggio dell’alfa galattosidasi A e l’indagine di un pannello genetico specifico”.
“Dalla fine degli Anni ’90 è attivo, presso il nostro Centro, un Gruppo interdisciplinare creato grazie all’intuizione e all’acume clinico del Dott. Fabrizio Martinelli, nefrologo”, aggiunge Tanini. “A lui si deve l’istituzione, nel 2001, del Centro di Riferimento Regionale Fabry assegnato all’Università degli di Studi Firenze, a cui fece seguito, qualche anno dopo, l’istituzione della Rete Regionale delle Malattie Rare entro cui si collocano, ad oggi, le Unità Operative di pertinenza delle varie specialità medico-chirurgiche”. Attualmente, il Gruppo Multidisciplinare, diretto e coordinato dal Dott. Lino Cirami, nefrologo, si riunisce una volta al mese per discutere i casi clinici assieme ai colleghi internisti-cardiologi, neurologi, nefrologi, oculisti, pediatri-metabolisti, immunologi, dermatologi con la collaborazione di un gastro-enterologo e di un audiologo. “Per ogni nuovo paziente con sospetto di malattia di Anderson-Fabry cerchiamo di organizzare un percorso clinico-diagnostico di una sola giornata, in modo da giungere ad una risposta certa nel minor tempo possibile”, prosegue Tanini. “L’aspetto organizzativo-logistico delle visite presso la nostra Unit e gli altri specialisti del Gruppo è reso possibile dalla presenza di un personale infermieristico altamente qualificato e orientato verso questo genere di tematica. Infine, nella nostra Unit è presente un’infermiera di ricerca dedicata che segue i protocolli di ricerca clinica e coadiuva la Caposala. Una volta confermata la diagnosi di malattia di Anderson-Fabry, e in presenza di coinvolgimento d’organo, i pazienti hanno a disposizione diverse opzioni terapeutiche, quali la terapia enzimatica sostitutiva, somministrata per via endovenosa, o la terapia chaperonica orale, quest’ultima solo per chi è portatore di una mutazione di significato patogenetico che sia suscettibile al trattamento”.
“Secondo le linee guida internazionali la terapia deve essere iniziata al minimo segno/sintomo di danno d’organo ed è fondamentale arrivare il prima possibile”, chiarisce la Dott.ssa Tanini. “L’opzione terapeutica deve essere scelta insieme al paziente e personalizzata il più possibile. In Toscana, purtroppo, non è più attivo il programma di infusione terapeutica a domicilio, ma cerchiamo di fare in modo di semplificare quanto più possibile la vita dei pazienti attraverso i centri territoriali, per evitare che debbano venire due volte al mese tutti qui al centro di riferimento. Stiamo elaborando finalmente anche un vero e proprio PDTA, che speriamo possa essere pronto il prima possibile, per garantire ai nostri pazienti la migliore presa in carico”.
“Chi è affetto dalla malattia di Anderson-Fabry – conclude Tanini – è come se avesse un fattore di rischio cardiovascolare molto alto. Per questo, è fondamentale che i pazienti seguano la terapia e si sottopongano a controlli costanti. Una diagnosi precoce può prevenire danni cardiovascolari, renali, ictus, ischemie e molte altre complicanze, garantendo una buona qualità della vita e andando a impattare 'positivamente' anche sull’aspetto economico in termini di produttività delle persone (che restano in salute più a lungo), di minori necessità assistenziali, di ospedalizzazione, etc.”.
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