Prof. Marco Spada

Il prof. Marco Spada (Torino): “Uno studio dimostra che il trattamento tempestivo con agalsidasi beta può prevenire l’insorgenza del danno renale e cardiaco associato alla patologia”

Grazie alla terapia di sostituzione enzimatica (ERT) molte patologie da accumulo lisosomiale, fra cui la malattia di Fabry, hanno trovato un’opportunità di trattamento che fino a qualche anno fa non esisteva. Tuttavia, questo genere di intervento richiede costanza nel tempo e deve esser mantenuto per tutta la vita del paziente, dal momento che si propone di fornire proprio l’enzima che all’organismo manca; pertanto, visti i costi e le difficoltà logistiche di erogazione (nella maggior parte dei casi i destinatari del trattamento sono bambini) in molti si interrogano sul momento più adatto a iniziare l’ERT. Nel caso della malattia di Fabry, un interessante articolo pubblicato sulla rivista Molecular Genetics and Metabolism ha offerto una chiara risposta.

“Uno dei pregi del lavoro, condotto dai colleghi dell’Università di Amsterdam, dello University Medical Center di Rotterdam e dello Haukeland University Hospital di Bergen, è stato di evidenziare come in un gruppo di pazienti con malattia di Fabry trattati precocemente con la terapia enzimatica sostitutiva agalsidasi beta non si sia osservato quell’aumento significativo dell’escrezione urinaria di albumina che nei non trattati prelude a un degrado della funzione renale”, spiega il prof. Marco Spada, Direttore della Pediatria e del Centro Regionale per la Cura delle Malattie Metaboliche dell’Ospedale Regina Margherita di Torino. Infatti, nella malattia di Fabry la mancanza dell’enzima alfa-galattosidosi A determina un pericoloso e progressivo accumulo degli sfingolipidi nelle cellule e nei tessuti dell’organismo: in particolare, l’accumulo di globotriaosilceramide e della sua forma deacilata (la globotriaosilsfingosina, lyso-Gb3) provoca gravi danni a livello delle fibre nervose, del muscolo cardiaco e delle cellule renali.

L’accumulo di queste sostanze nelle strutture glomerulari del rene inizia già in epoca fetale e continua nei primi anni di vita del bambino affetto dalla forma classica della malattia di Fabry, cioè quella determinata da una completa assenza dell’enzima”, prosegue Spada. “Tuttavia, i danni da esse provocati si iniziano a manifestare nella seconda decade di vita, con complicanze renali e cardiologiche che costituiscono un serio rischio per i pazienti”. Pediatri e nefrologi si avvalgono della determinazione dell’escrezione dell’albumina nelle urine (un parametro noto come albuminuria) per monitorare lo stato di salute del rene; insieme al dosaggio della creatinina e alla valutazione dell’eGFR (velocità di filtrazione glomerulare), l’albuminuria è uno dei più affidabili marcatori della funzionalità del glomerulo renale. Pertanto, i ricercatori olandesi e svedesi hanno fatto ricorso proprio a questo parametro per ‘quantificare’ l’impatto dei danni della malattia di Fabry a livello del rene.

La casistica raccolta è stata divisa in due gruppi di studio: uno è formato da sette pazienti affetti dalla forma classica della patologia che hanno ricevuto agalsidasi beta prima dell’età di 16 anni e sono stati monitorati per i successivi dieci anni”, precisa Spada. “L’altro è composto da ventitré pazienti di controllo che non sono stati trattati precocemente. Ebbene, in tutti i sette pazienti trattati l’albumina urinaria si è mantenuta nella norma”. Il dato ha un valore sostanziale poiché si capisce come l’avvio precoce della terapia enzimatica favorisca la metabolizzazione delle sostanze tossiche accumulatesi nelle cellule del rene, permettendone così il regolare funzionamento. “La differenza nei valori di albumina tra i due gruppi di studio è molto significativa”, aggiunge Spada. “Ciò dimostra che l’avvio di una terapia enzimatica sostitutiva in epoca precoce previene l’insorgenza del danno renale”.

Il dato presentato dai medici olandesi implica forse che l’albuminuria sia il parametro da usare per decidere quando iniziare la terapia? “Assolutamente no”, risponde il prof. Spada. “È la diagnosi biologica della malattia a fornire l’indicazione sull’inizio della terapia, non il valore dell’albuminuria. In tutti i pazienti con forma classica di malattia di Fabry la terapia di sostituzione enzimatica deve sempre essere anticipata in età precoce, senza attendere lo sviluppo dei segni o sintomi della patologia”.

Infatti, nello studio pubblicato su Molecular Genetics and Metabolism si può notare come il livello plasmatico di lyso-Gb3, sia nei pazienti trattati che non trattati, sia oltre cento volte superiore rispetto al limite di normalità (rispettivamente 118 e 102 nmol/l). “Lyso-Gb3 è un indicatore della gravità”, precisa Spada. “Ciò significa che tutti gli individui maschi affetti dalla malattia di Fabry in forma classica hanno un rischio di evoluzione verso problematiche cardiache e renali superiore all’80%. Bisogna iniziare a trattarli subito, senza attendere che i reni e il cuore vengano danneggiati. Ed è proprio il dato su coloro che hanno scelto di procrastinare l’avvio della terapia a dimostrarlo poiché, a dieci anni, l’estensione delle lesioni renali conferma l’irreversibilità della loro situazione”.

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