Un recente studio ha evidenziato notevoli differenze di genere nell’insorgenza di questo raro disturbo del sonno
La narcolessia è un disturbo neurologico raro e cronico che comporta una disregolazione del ciclo sonno-veglia, dovuta principalmente alla perdita o disfunzione selettiva dei neuroni dell’orexina (ipocretina) nell’ipotalamo laterale. Chi ne soffre, in parole semplici, ha spesso sonno, anche durante il giorno. Ma non c’è solo la sonnolenza. I sintomi sono diversi, le cause pure, e i trattamenti ad oggi aiutano a convivere con la narcolessia, ma non a curarla. La prevalenza stimata della narcolessia – chiamata anche ipersonnia – è tra i 25-50 casi su 100.000 individui. Questa patologia può manifestarsi a qualsiasi età, ma presenta tipicamente un picco di esordio in due fasi: in adolescenza e tra i 30-39 anni. Un aspetto critico è il notevole ritardo diagnostico, stimato in media a 14-15 anni, che comporta un impatto significativo sulla qualità di vita dei pazienti e probabilmente una sottostima della reale prevalenza della malattia. Un recente studio pubblicato su Sleep ha messo in luce possibili differenze di genere nell’insorgenza di questa patologia, con gli uomini che sembrano esserne più a rischio rispetto alle donne, oltre ad altre distinzioni specifiche tra i due sessi.
I SINTOMI E I FATTORI DI RISCHIO DELLA NARCOLESSIA
Esistono due tipi principali di narcolessia: di tipo 1 (con cataplessia, ossia con perdita improvvisa del tono muscolare) e tipo 2 (senza cataplessia). Oltre a sonnolenza e cataplessia, gli altri sintomi possono essere paralisi del sonno e allucinazioni ipnagogiche (esperienze sensoriali vivide e intense che si verificano durante la fase di addormentamento, cioè nella transizione dalla veglia al sonno). A questi sintomi ipnologici, si possono riscontrare anche comorbidità endocrino-metaboliche (obesità, alterazioni glicemiche e lipidiche, disturbi dello sviluppo puberale nei bambini), cardiovascolari e psicologico/psichiatriche, che possono contribuire a un aumento della mortalità.
I fattori di rischio della narcolessia sono molti: si va dalla predisposizione genetica - in particolare la presenza dell’allele HLA-DQB1*0602 – ai possibili fattori ambientali o immunologici che portano alla distruzione delle cellule produttrici di orexina. La narcolessia è anche associata a un aumentato rischio di malattie autoimmuni correlate agli antigeni HLA, come spondilite anchilosante, artrite reumatoide e sindrome di Sjögren. Come possibili trigger ambientali sono state individuate infezioni delle vie aeree superiori, influenza H1N1, una specifica vaccinazione anti-influenzale (Pandemrix) e infezioni da streptococco. L'ipotesi attuale suggerisce che questi fattori scatenanti attivino una risposta autoimmune diretta contro i neuroni ipotalamici producenti orexina/ipocretina, la cui carenza rappresenta il meccanismo fisiopatologico centrale e il marcatore biologico della narcolessia di tipo 1. Altri fattori studiati includono l’indice di massa corporea ed eventi particolarmente stressanti, ma le associazioni causali restano incerte.
A proposito di massa corporea, nello studio appena pubblicato su Sleep è emerso come nelle donne adulte questa patologia interessi di più chi una un indice basso di massa corporea. Inoltre, lo studio ha stabilito una maggior insorgenza nei maschi, sia bambini sia ragazzi. Nelle donne, oltre alla massa corporea, i fattori di rischio sembrano essere un sonno più lungo, una quantità superiore di sonno profondo (fase 3), minori periodi di veglia dopo l'addormentamento e una minore incidenza di apnee notturne. Per quanto riguarda le bambine e le ragazze, queste hanno riportato più frequentemente allucinazioni, una maggiore frammentazione del sonno notturno e punteggi più elevati nella Narcolepsy Severity Scale rispetto ai coetanei maschi. La Narcolepsy Severity Scale (NSS) è uno strumento clinico costituito da un questionario autocompilato di 15 quesiti, che valuta la gravità e le conseguenze dei cinque principali sintomi della narcolessia: sonnolenza diurna eccessiva; cataplessia; allucinazioni ipnagogiche; paralisi del sonno e disturbi del sonno notturno.
Ad ogni modo, lo studio non ha evidenziato differenze significative tra i generi nella gravità della sonnolenza diurna e della cataplessia, che rappresentano i sintomi cardine della patologia. Gli autori suggeriscono di approfondire il tema con ricerche longitudinali legate al genere, come l'influenza dello stato ormonale, la risposta ai trattamenti farmacologici e il decorso della malattia nel tempo, anche al fine di personalizzare maggiormente l'approccio terapeutico.
TRATTAMENTI DELLA NARCOLESSIA
Ad oggi non si guarisce dalla narcolessia, ma ci si può convivere. Il trattamento è sintomatico e mira a migliorare la vigilanza diurna e a ridurre gli attacchi di cataplessia. L'approccio farmacologico si basa sulla modulazione di specifici sistemi neurotrasmettitoriali, con diverse classi di farmaci che agiscono su meccanismi diversi ma complementari.
Per quanto riguarda il miglioramento della vigilanza, farmaci come modafinil, armodafinil e altri stimolanti rappresentano la prima linea di trattamento. Questi principi attivi agiscono aumentando il rilascio o inibendo il riassorbimento di neurotrasmettitori come noradrenalina e dopamina, con conseguente effetto risvegliante utile nel contrastare l'eccessiva sonnolenza diurna.
Per il controllo della cataplessia, risultano particolarmente efficaci i farmaci che inibiscono il riassorbimento della serotonina o della noradrenalina, come la venlafaxina. Un ruolo fondamentale è svolto anche dal sodio oxibato, che agisce tanto sulla cataplessia quanto sui disturbi del sonno notturno, sulle paralisi del sonno e sulle allucinazioni ipnagogiche/ipnopompiche.
Un aspetto interessante emerso dalla ricerca farmacologica recente è che la modulazione dei recettori GABA-B o dei recettori istaminergici H3 può influenzare positivamente sia l'eccessiva sonnolenza diurna sia la cataplessia. In questo contesto, il pitolisant, un antagonista del recettore H3 dell'istamina, e il solriamfetol, un inibitore del riassorbimento di dopamina e noradrenalina, rappresentano le più recenti acquisizioni terapeutiche, approvati nell'Unione Europea (pitolisant) e negli Stati Uniti (pitolisant e solriamfetol) per il trattamento dell'eccessiva sonnolenza diurna associata alla narcolessia.
La ricerca farmacologica nel campo della narcolessia è particolarmente attiva, con diversi nuovi agenti in fase di sviluppo e sperimentazione. Tra questi spiccano nuove formulazioni di oxibato (una versione monosomministrazione notturna denominata FT218 e una a basso contenuto di sodio chiamata JZP-258), un inibitore selettivo del riassorbimento della noradrenalina (AXS-12), e un prodotto innovativo che combina modafinil con un inibitore della connessina astrogliale (THN102).
Ogni farmaco presenta caratteristiche farmacodinamiche e farmacocinetiche specifiche, con profili di efficacia e tollerabilità che devono essere attentamente valutati per personalizzare il trattamento in base alle esigenze del singolo paziente. Oltre ai medicinali, altri trattamenti consistono in strategie comportamentali, come igiene del sonno, riposi programmati e attività fisica.
L’IMPATTO DELLA NARCOLESSIA SULLA VITA QUOTIDIANA
La narcolessia ha un impatto significativo sulla qualità della vita, influenzando la capacità di lavorare, studiare e partecipare ad attività sociali. Per questo il trattamento - al di là dei farmaci - non può che essere multidisciplinare, con specialisti in medicina del sonno, neurologia, psichiatria e psicologia, con attenzione anche alla gestione dei rischi cardiovascolari e delle comorbidità autoimmuni.
LA NARCOLESSIA E IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Diversi studi osservazionali, genetici e clinici hanno dimostrato che le persone con narcolessia mostrano una maggiore incidenza di eventi e comorbidità cardiovascolari rispetto alla popolazione generale. Al centro di questa correlazione c'è la fisiopatologia della narcolessia, specialmente di tipo 1 (NT1), caratterizzata da una carenza di ipocretina. Questa sostanza non regola solo il ciclo sonno-veglia, ma influenza anche parametri cardiovascolari fondamentali come la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa. La carenza di ipocretina comporta un'alterazione della normale riduzione notturna della pressione sanguigna (fenomeno del "non-dipping"), che rappresenta un riconosciuto fattore di rischio cardiovascolare. Studi condotti sia su adulti sia su bambini con NT1 hanno evidenziato alterazioni significative nella modulazione autonomica cardiovascolare durante il sonno, con una capacità ridotta di adattare la pressione arteriosa alle transizioni tra veglia e sonno. Questa disfunzione autonomica si manifesta anche attraverso anomalie nella variabilità della frequenza cardiaca e risposte inadeguate agli stimoli interni.
Dal punto di vista epidemiologico, ampie analisi di coorte e studi genetici confermano che i pazienti con narcolessia presentano un rischio significativamente aumentato di sviluppare eventi cardiovascolari come insufficienza cardiaca, coronaropatia, ictus, fibrillazione atriale e infarto miocardico. Il rischio di eventi cardiovascolari maggiori risulta quasi doppio rispetto ai soggetti senza narcolessia, anche dopo aver considerato fattori confondenti come comorbidità e uso di farmaci stimolanti. Particolarmente preoccupante è l'effetto sinergico che si verifica quando la narcolessia coesiste con altre condizioni come obesità, diabete o apnea ostruttiva del sonno, che amplificano ulteriormente il rischio cardiovascolare complessivo.
Considerata questa stretta correlazione, gli esperti raccomandano un approccio clinico che includa il riconoscimento precoce del rischio cardiovascolare nei pazienti narcolettici, la riduzione dei fattori di rischio modificabili (come ipertensione e dieta ricca di sodio) e un monitoraggio regolare della salute cardiovascolare. La gestione ottimale dovrebbe comprendere modifiche dello stile di vita, controllo delle comorbidità e una selezione attenta dei farmaci utilizzati per trattare la narcolessia, privilegiando quelli con un profilo di sicurezza cardiovascolare favorevole.
UNA BASE AUTOIMMUNE PER LA NARCOLESSIA?
La narcolessia è stata a lungo sospettata di avere una base autoimmune, sospetti confermati da diversi studi, soprattutto nei soggetti geneticamente predisposti. Tuttavia, la relazione non è ancora completamente chiarita e non sono stati identificati autoanticorpi specifici per la narcolessia. L’ipotesi autoimmune riguarda soprattutto la narcolessia di tipo 1, caratterizzata dalla perdita selettiva dei neuroni che producono orexina, probabilmente tramite un meccanismo immuno-mediato. In alcuni casi, sono stati riscontrati segni di neuroinfiammazione nel liquido cerebrospinale, come bande oligoclonali e pleiocitosi, a supporto di un coinvolgimento immunitario. Sono stati riportati casi di narcolessia associata ad altre patologie autoimmuni, come la malattia di Graves (ipertiroidismo autoimmune) e la sindrome di Rasmussen, suggerendo una possibile vulnerabilità condivisa. Va comunque ribadito che si tratta di casi isolati e che, al contrario, studi su ampie coorti non hanno trovato un aumento significativo di autoanticorpi specifici nei pazienti con narcolessia. Sono necessari altri studi per confermare in modo specifico la base autoimmune di questa patologia.
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