As.It.O.I., Associazione Italiana Osteogenesi Imperfetta, ha recentemente presentato il suo 25 Convegno Nazionale. In questa occasione il Prof. Franco Antoniazzi dell’Università di Verona, ha ripercorso gli ultimi 30 anni di ricerca su questa malattia genetica. La prima classificazione sistematica della patologia risale a circa 30 anni fa, con la suddivisione, ad opera dell’australiano David Sillence, dell’Osteogenesi Imperfetta in 4 tipi caratterizzati dai differenti aspetti clinici della patologia. La classificazione di Sillence è ancor oggi utilizzata, anche in una versione ulteriormente arricchita dall’apporto successivo del canadese F. Glorieux. In particolare, gli studi successivi di immunistochimica hanno aggiunto alla prima classificazione altri tre ulteriori tipi, dettagliando il tipo 4 e determinando così i tipi 5, 6 e 7.
Questa classificazione è stata utile anche agli studi molecolari che hanno indagato a livello della cellula le tipicità della patologia e la ricerca delle sue cause. In particolare si è indagato sugli aspetti legati al collagene, scoprendo come i difetti quantitativi di questa molecola (cioè quelli dovuti alla produzione di meno collagene del dovuto) fossero causa delle forme più lievi, mentre i difetti di tipo qualitativo (cioè la produzione di collagene difettoso, anche se in quantità adeguata) fossero causa delle forme più gravi.
Questi studi sono stati sviluppati a Verona dalla Prof.ssa Monica Mottes e dal suo staff, grazie all’apporto del Prof. Cetta, biochimico dell’Università di Pavia.
Un altro grande passo avanti negli studi a livello genetico è stato, negli ultimi anni, quello dell’individuazione delle forme recessive (2006): le prime ipotesi rispetto all’ereditarietà avevano fatto supporre che la patologia avesse una forma autosomica recessiva, ma successivi studi ne avevano messo in luce la caratteristica forma autosomica dominante, facendo supporre, fino a pochissimi anni fa, che l’O.I. fosse una patologia sempre autosomica dominante (cioè senza portatori sani, con il 50 per cento di probabilità per una persona affetta di avere un figlio affetto).
Le nuovissime scoperte mettono invece in luce una maggioranza di casi in cui la patologia è autosomica dominante, ma con la presenza di una cospicua casistica in cui essa è autosomica recessiva (e causata da geni scoperti di recenti come il Lepre 1 e il CRTAP): ne è risultata dunque un’ulteriore specificazione della classificazione, con l’aggiunta del Tipo 8 e, naturalmente, la spiegazione dei casi che non rientravano nella concezione dell’O.I. come sempre autosomica dominante.
La diagnosi per l’Osteogenesi Imperfetta è complessa nelle forme lievi: a differenza, per esempio, dell’acondroplasia (un’altra patologia delle ossa di origine genetica molto diffusa), la mutazione nell’O.I. non è quasi mai la stessa e le analisi genetiche richiedono studi approfonditi.
Nelle diagnosi dei casi lievi c’è spesso una zona d’ombra: la radiografi a cranica laterale può mettere in risalto alcune caratteristiche tipiche della patologia nei casi dubbi. Inoltre, la densitometria ossea diventa utile per diagnosticare la patologia oltre ad essere utile nel monitorare i progressi delle terapie sul paziente.
L’evoluzione nella ricerca sull’O.I. si è riscontrata anche in discipline più direttamente legate alla terapia sui pazienti: accanto al progresso ottenuto in questi anni nell’ambito fi sioterapico grazie all’esperienza continua con i pazienti, i nuovi strumenti d’intervento hanno rappresentato un’importante conquista per la chirurgia.
I chiodi telescopici e l’evoluzione delle tecniche per un loro uso sempre più efficace, hanno rappresentato un progresso per la chirurgia, aggiungendosi alle tecniche di sintesi già impiegate con successo.
I difosfonati sono la più grande scoperta per la terapia nell’O.I. degli ultimi anni: la loro somministrazione ha cambiato l’approccio terapeutico in ogni ambito d’intervento sull’Osteogenesi Imperfetta.
Oggi, per esempio, l’ortopedia trova nell’osso trattato con difosfonati caratteristiche diverse quando opera (l’osso risulta più robusto e più rigido).
L’esperienza suggerisce oggi che la terapia con i difosfonati vada interrotta nel caso di interventi programmati, ma essa – come ha ricordato il Prof. Antoniazzi – non presenta effetti collaterali, eccetto i sintomi di una sindrome influenzale che possono comparire per qualche giorno dopo la somministrazione.
Non sono mai stati segnalati nell’O.I. effetti avversi come l’osteonecrosi della mandibola, segnalata nel trattamento di altre patologie che richiedono un approccio più aggressivo e dosaggi molto superiori.
Sono necessari ulteriori studi per valutare gli effetti a distanza, le migliori modalità di dosaggio, la durata del trattamento, gli intervalli tra le somministrazioni e lo studio di bisfosfonati più potenti.
L’intervento del prof. Antoniazzi è stato pubblicato in versione integrale sul sito di As.It.O.I. a questo link.
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