Valentina Rampin

Il percorso di una giovane marinaia veneta, dalla prima crisi alla ricerca di una diagnosi, fino all'inizio della terapia con emina e alla svolta con il nuovo farmaco givosiran

Grosseto – È il primo giugno del 2017: Valentina Rampin, 38 anni, lavora nel settore della nautica ed è a bordo di una barca a vela ormeggiata nel porticciolo di Marina di Scarlino, a pochi chilometri da Follonica. È sola, perché il resto dell'equipaggio è a casa. Quella mattina si sveglia con nausea, gonfiore e strani dolori addominali. “Pensai subito al ciclo mestruale alle porte e agli effetti collaterali dell'assunzione di antibiotici a causa di una forte infiammazione alla gola. Ma i dolori ben presto divennero sempre più forti, fino a procurarmi conati di vomito”, ricorda Valentina.

Per fortuna, alle 3 del pomeriggio, arrivano a bordo il comandante e lo chef, che la accompagnano al pronto soccorso di Follonica. Il medico le somministra della tachipirina endovena, ma il dolore persiste e aumenta, perciò dopo due ore decide di trasferirla in ambulanza all'ospedale di Grosseto, dopo averle iniettato della morfina per il viaggio. Qui dopo, una lunghissima attesa, viene visitata e sottoposta a un'ecografia addominale, che dà esito negativo. “Hai l'addome pieno d'aria, forse hai mangiato troppa pizza”, le risponde il medico, al quale chiede spiegazioni.

LA RICERCA DI UNA DIAGNOSI

La notte trascorre tra vomito e dolori, e la mattina successiva Valentina avvisa i suoi genitori del ricovero. “Mia mamma mi suggerì subito di dire al medico che poteva trattarsi di una crisi di porfiria, perché mio padre era risultato positivo all'esame genetico per questa malattia solo una settimana prima: lo comunicai subito al medico di turno al pronto soccorso, ma nemmeno mi rispose”. La donna viene sottoposta a diversi altri esami: visita ginecologica, ecografia endovaginale, ispezione rettale per verificare la presenza di occlusioni, TAC addominale, radiografia; tutte con esito negativo. Dall'Unità di Osservazione Breve Intensiva (O.B.I) la trasferiscono quindi nel reparto di Medicina Interna, ma i dolori aumentano sensibilmente, e solo dopo un’altra notte di vomito e dolori lancinanti viene sedata tramite morfina in vena con elastomero.

Nel frattempo, i genitori di Valentina la raggiungono a Grosseto e fanno presente ancora una volta la possibilità che si tratti di una crisi di porfiria, ma i dottori continuano a non prendere sul serio questa eventualità. “Il momento peggiore fu quando i medici decisero di sospendere la sedazione per valutare i miei sintomi: subito si scatenarono dolori fortissimi e ricominciai a vomitare fino a sfiorare il collasso”, racconta Valentina. “Solo allora iniziarono finalmente a prendere più sul serio l'ipotesi porfiria e a somministrarmi delle soluzioni glucosate al 10%: le crisi diventarono meno frequenti, anche se il dolore rimaneva molto forte. Mi rimisero anche l'elastomero con la morfina, ma ogni dieci ore il dolore si riacutizzava e occorreva somministrarmi altra morfina per via orale”.

È grazie all'aiuto di un genetista di Siena, il dr. Alfredo Orrico, in visita a Grosseto e incuriosito dal caso di Valentina, che l'ospedale inizia una collaborazione con la dr.ssa Annamaria Nicolli, biologa del Centro Porfirie dell’Azienda Ospedaliera di Padova, la quale suggerisce di eseguire il prima possibile un test per valutare i suoi valori e capire se si tratta appunto di porfiria. Ma l'ospedale di Grosseto (che non è un centro di riferimento per la porfiria) non riesce a trovare una soluzione, tanto che il padre di Valentina, alla fine, decide di prendere l'auto e portare il campione di urine della figlia direttamente a Padova. I valori sono altissimi e i sospetti vengono confermati: la diagnosi è di porfiria acuta intermittente.

IL TRASFERIMENTO DA GROSSETO A PADOVA

A questo punto, a Padova, viene coinvolto il dr. Carlo Poci, che chiede all'ospedale di Grosseto di reperire l'emina, per iniziare la procedura e sedare la crisi, ma i medici si rifiutano, ammettendo di non sentirsi in grado di agire in questa direzione. Così Valentina firma per essere trasferita in ambulanza all'ospedale di Padova, dove la aspettano le sue dosi di emina.

Sono stata nove giorni a Grosseto: un inferno, ve lo assicuro. Non ho un ricordo limpidissimo del periodo trascorso lì a causa dei dolori e della sedazione, lo ammetto, ma ho ricostruito questa vicenda grazie alla memoria dei miei genitori, che non mi hanno mai lasciata sola. Non ho mai perso lucidità, ma ho sperimentato un livello di dolore per me altissimo, mai provato prima: niente a che vedere con le sei coliche renali e successivo bombardamento dei calcoli che ho subito nel 2007”, prosegue Valentina. “A Grosseto ho trovato incompetenza, leggerezza e poca umanità: posso parlare bene solo di una giovane infermiera alle prime armi che si è prodigata moltissimo per me. Ho comunicato di poter essere malata di porfiria il 2 giugno e solo il giorno 8 questa ipotesi è stata presa in considerazione in modo serio. Il ricovero presso l'ospedale di Padova, invece, è stato completamente diverso: medici e infermieri sempre presenti, esperti e molto gentili; non finirò mai di ringraziare il dr. Poci, la dr.ssa Nicolli e il loro staff”.

LA VITA DOPO IL RICOVERO

La febbre e un'importante infiammazione alle vene delle braccia, dovuta alle infusioni di emina, costringono Valentina a restare in ospedale fino al 16 giugno. “Dopo 16 giorni di ospedale ero abbattuta e indebolita dal ricovero e dal lungo digiuno (non ho mangiato per 9 giorni). Avevo perso il lavoro, e dovevo fare i conti con questa strana malattia che mi dovrò portare appresso per tutta la vita. Poi ho semplicemente deciso che era lei che doveva adattarsi al mio stile di vita: non ero pronta a rinunciare al mio lavoro e alle mie passioni. Così, una volta stabilizzati i valori e gestite le infusioni di emina, dopo due mesi e mezzo di riabilitazione sono tornata al lavoro, al mare, nella stessa barca dove tutto era iniziato. Non è stato semplice, ma arrendersi avrebbe solo reso tutto più complicato e triste”.

Nel corso del primo anno, la porfiria è stata gestita con l'utilizzo di emina una volta al mese, ma questo provocava a Valentina, nella settimana antecedente la data della terapia, dolori e malessere che le impedivano a volte anche di uscire di casa. Così la dose mensile è stata raddoppiata, ma neanche questo è stato sufficiente, perché con il passare dei mesi la situazione è peggiorata: le frequenti infusioni di emina procuravano alla donna dolorose flebiti e dunque non aveva più vene reperibili. Perciò, con un intervento eseguito il 18 agosto 2017, i medici hanno deciso di inserire un port (un dispositivo che permette la somministrazione di farmaci nel sistema venoso), e per tutto il 2019 e parte del 2020 il dosaggio è stato aumentato ancora, fino a tre infusioni al mese.

LA SVOLTA CON LA NUOVA TERAPIA

“Poi, nel maggio 2020, ho iniziato la terapia con un nuovo farmaco, il givosiran, e la mia vita è decisamente cambiata in meglio!”, sottolinea Valentina. “Sono riuscita ad accedere al trattamento prima della commercializzazione grazie al lavoro del prof. Paolo Ventura, del Policlinico di Modena, del dr. Poci e della dr.ssa Nicolli. Sono stata inserita in un protocollo sperimentale che prevedeva un'iniezione di givosiran ogni 4 settimane. Già dopo la seconda iniezione i dolori e i fastidi addominali che provoca la malattia erano praticamente spariti. La sensazione più bella è stata una mattina, quando al risveglio mi sono resa conto che non provavo nessun tipo di dolore: è stato commovente! Ho preso anche coscienza del fatto che da anni, in pratica, convivevo con un dolore costante. Con l'emina, infatti, il sollievo durava ben poco, e dopo quattro giorni dall'infusione i dolori tornavano: sopportabili, certo, ma sempre presenti. Con givosiran, invece, questo non succede”.

Il mestiere di Valentina consiste nel viaggiare per mesi in mare, e la scorsa estate, per poter essere più vicina all'ospedale, ha dovuto rinunciare a diversi ingaggi. “Ho dovuto fare i salti mortali per continuare a lavorare in barca a vela e curarmi allo stesso tempo. Per fortuna ho imparato a farmi la terapia con emina da sola, in caso di emergenza, e si è rivelata un'abilità molto utile anche durante la pandemia di COVID-19”, conclude Valentina. “Con givosiran è ancora più semplice, perché si tratta di una piccola iniezione sulla pancia, molto facile da farsi da soli. Spero presto di poter accedere al farmaco in maniera autonoma, per non dover andare ogni mese in ospedale a Padova e poter finalmente riprendere il mare”.

Seguici sui Social

Iscriviti alla Newsletter

Iscriviti alla Newsletter per ricevere Informazioni, News e Appuntamenti di Osservatorio Malattie Rare.

Sportello Legale OMaR

Tumori pediatrici: dove curarli

Tutti i diritti dei talassemici

Le nostre pubblicazioni

Malattie rare e sibling

30 giorni sanità

Speciale Testo Unico Malattie Rare

Guida alle esenzioni per le malattie rare

Partner Scientifici

Media Partner


Questo sito utilizza cookies per il suo funzionamento. Maggiori informazioni