La terapia a base di budesonide si assume semplicemente sciogliendola sotto la lingua: insieme alla dieta e alle tecniche di dilatazione contribuisce a tenere sotto controllo la malattia
La sensazione di cibo che ‘non scende’, le corse in pronto soccorso per liberare l’esofago, la fatica a deglutire che pian piano porta ad escludere alcuni cibi dalla dieta e a bere molto durante i pasti, il dolore addominale: tutti sintomi che possono far pensare a diverse patologie gastriche. Tra queste andrebbe presa in considerazione anche una malattia rara, l’esofagite eosinofila (EoE). Rara sì ma non rarissima, e probabilmente anche sottodiagnosticata, visto che chi ne è affetto può girare per molto tempo, e sottoporsi a molti esami, prima che la malattia venga individuata. Gli ultimi dati di una metanalisi hanno infatti mostrato una prevalenza complessiva dell’esofagite eosinofila di 22,7 casi ogni 100.000 abitanti, con tassi più alti negli adulti (43,4 su 100.000) rispetto ai bambini (29,5 su 100.000).
Per gli adulti affetti da questa malattia è oggi disponibile una nuova terapia che ha dimostrato tassi clinici convincenti di remissione, pratica da portare ovunque e facile da assumere grazie alla formulazione orodispersibile. Questi ultimi possono sembrare dei dettagli di poco conto, ma per i pazienti si tratta di una novità molto importante. La budesonide in compresse orodispersibili, l’unico farmaco approvato per il trattamento dell’esofagite eosinofila e che può essere utilizzato sia nella terapia di induzione sia in quella di mantenimento, permette infatti di evitare le complicazioni che si avevano in precedenza quando questo corticosteroide con attività antinfiammatoria era disponibile solo in formulazione galenica, a volte difficile da reperire e che imponeva una preparazione non semplice. Il nuovo farmaco orodispersibile è già pronto per l’uso e va tenuto per circa 2 minuti sotto la lingua: a contatto con la saliva, la leggera effervescenza della compressa stimola la produzione di altra saliva che permette il disgregamento della compressa stessa. Quando la saliva viene deglutita funge perciò da veicolo, trasportando il principio attivo a livello dell’esofago, dove la budesonide può esplicare in maniera diretta la sua attività antinfiammatoria. Questa azione topica, locale, aumenta l’efficacia del farmaco minimizzando quasi completamente gli effetti collaterali.
Di questa novità, dei problemi legati alla diagnosi di EoE e delle necessità dei pazienti si è recentemente discusso in un incontro organizzato da Dr Falk, l’azienda che ha messo a punto e che commercializza il farmaco, insieme a due dei maggiori esperti della patologia, il prof. Edoardo Vincenzo Savarino, Professore Associato di Gastroenterologia-DISCOG, Università di Padova, e il prof. Giorgio Walter Canonica, Responsabile del Centro Medicina Personalizzata Asma e Allergologia, IRCCS Humanitas Research Hospital di Milano, e all’associazione dei pazienti ESEO Aps Italia, rappresentata dalla presidente Roberta Giodice.
“L’esofagite eosinofila (EoE) è una patologia Th2 antigene-mediata, caratterizzata clinicamente da sintomi di disfunzione esofagea ed istologicamente da un’infiltrazione eosinofila dell’epitelio dell’esofago. I sintomi esofagei includono pirosi, rigurgito, vomito, disfagia, arresto del bolo alimentare e dolore addominale. La malattia non trattata può portare a rimodellamento esofageo, rigidità e stenosi del viscere; pertanto, fare una corretta diagnosi in tempi brevi è importante, ma non sempre facile. Spesso si cerca la causa ‘più giù’, nello stomaco o comunque a livello gastrico, e si ‘passa oltre’ l’esofago”, ha spiegato il prof. Edoardo Vincenzo Savarino. “Per una corretta diagnosi della patologia deve essere eseguita una esofagogastroduodenoscopia (EGDS) con biopsie e va condotta una ricerca specifica, e se non si ha il sospetto di malattia tutto ciò non viene fatto: per questo è essenziale parlare di questa condizione e farla conoscere”. Una conoscenza che è importante portare anche a chi si occupa di medicina di urgenza, perché sebbene non è raro che i pazienti finiscano in pronto soccorso con il bolo bloccato nell’esofago, non sempre questo è l’inizio di un percorso che porta verso la corretta diagnosi.
Ma quali sono le cause dell’esofagite eosinofila? Chi è più a rischio di svilupparla? Sono domande normali, che i pazienti e i clinici si pongono ma sulle quali non c’è una risposta netta. “L’origine e la causa dell’EoE non sono ancora del tutto chiare”, ha infatti spiegato il prof. Giorgio Walter Canonica. “Si pensa che ci sia un’interazione fra sistema immunitario e fattori ambientali tra cui non solo il cibo, ma anche i pollini ad esempio. Insomma, siamo di fronte a una patologia immuno-allergica che richiede un approccio multidisciplinare, e nel team è importante che ci sia anche un allergologo, per aiutare la persona a trovare la dieta più adatta. La dieta è fondamentale: circa il 70% dei pazienti soffre di EoE a causa di alimenti, dato che può essere ulteriormente aumentato di un 10% riferendosi anche ad altre sensibilizzazioni. Non ultimo, ricordiamo alcuni report di pazienti che hanno sviluppato EoE anche a seguito di immunoterapia orale o sublinguale”. In sostanza, in queste persone le sostanze contenute in alimenti o pollini vengono in contatto, a livello esofageo, con cellule del sistema immunitario che si attivano in un modo inconsueto, determinando un’infiammazione con richiamo degli eosinofili in corrispondenza della mucosa dell’esofago.
Per chi è affetto da esofagite eosinofila avere un farmaco è importante, ma è solo uno dei tre tasselli fondamentali nel percorso terapeutico, che può essere riassunto con tre D: Diet, Drugs, Dilatation. La terapia alimentare si basa su diete elementari o empiriche, che consistono nell’interruzione dell’assunzione dei più comuni alimenti allergenici come il latte, le uova, il grano, la soia, le nocciole e i molluschi. La dilatazione endoscopia, infine, si attua con un palloncino o dilatatore di tipo Savary.
È dunque evidente come questa patologia non sia solo pericolosa ma abbia anche un importante impatto negativo sulla vita dei pazienti e delle loro famiglie, impatto che è particolarmente forte nel momento in cui non c’è una diagnosi e non si segue, quindi, un percorso terapeutico. “Il ritardo diagnostico è veramente un problema”, ha detto Roberta Giodice, Presidente di ESEO APS Italia. “Spesso la malattia viene sottovalutata a causa di sintomi a volte non gravi, ma che possono poi portare a dei peggioramenti. Ma anche quando una diagnosi arriva ci sono altri ostacoli, che variano a seconda delle singole Regioni perché, purtroppo, non tutte sono organizzate nello stesso modo e non tutte rendono accessibili visite e terapie in egual misura: serve creare dei PDTA (Percorsi Diagnostico-Terapeutici Assistenziali) nelle eccellenze locali, affinché diventino facilitatori di buone pratiche”.
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