Le categorie di persone sorde sono molteplici, con bisogni comunicativi differenti. Un approccio unico, centrato solo su LIS o sottotitoli, rischia di escludere più che integrare
Quando si parla di sordità, l’immaginario collettivo tende a ridurre tutto a un’unica immagine: una persona che comunica attraverso la lingua dei segni. Ma questa rappresentazione, oltre a essere parziale, porta spesso a politiche e iniziative che non rispondono ai bisogni reali delle persone sorde. A spiegarlo è il professor Sandro Burdo, tra i massimi esperti italiani di audiologia pediatrica, già direttore del reparto di Audiovestibologia dell’Ospedale di Varese, che da decenni si occupa di diagnosi e riabilitazione delle ipoacusie infantili, comprese quelle legate a malattie rare.
“Il problema è che non esistono ‘i sordi’”, esordisce il prof. Burdo. “Esistono varie categorie di persone sorde e, poiché il progresso medico e riabilitativo è stato rapidissimo, oggi ci si può trovare di fronte a profili molto diversi tra loro”.
NON ESISTE “IL SORDO”: TRE GRANDI CATEGORIE
Secondo l’esperto, l’opinione comune continua a identificare la sordità con la lingua dei segni: “La gente generalmente è convinta che sordo significhi sordo che segna. In realtà questa è una visione superata e parziale”. Negli anni, infatti, lo sviluppo degli impianti cocleari e delle metodiche di riabilitazione ha cambiato profondamente la realtà delle persone sorde.
All’interno di questo mondo, il professore individua tre grandi categorie. La prima è quella dei segnanti, una minoranza. “I sordi che segnano come prima lingua sono solo quel 5% nato da famiglie di sordomuti. Si tratta di centinaia di persone in tutta Italia, non di milioni”, precisa. Secondo l’esperto, questa percentuale corrisponde a circa il 5% di 1 su 1000, un dato che evidenzia quanto sia minoritaria questa condizione. Anche in questo gruppo, le lingue dei segni usate non sono uniformi: “Ogni città ha la sua lingua, con un vocabolario ridotto e strutture differenti”. “La LIS, la lingua dei segni italiana, - sottolinea - non è la naturale evoluzione di queste lingue locali, ma una lingua creata a tavolino negli anni Ottanta. È stata costruita con un preciso intento, e per molti sordi rimane una seconda lingua, non quella madre”.
Molto più numerosi sono i labiolettori, coloro che comprendono attraverso la lettura labiale e parlano con la bocca. “Capiscono con gli occhi e parlano con la bocca. Sono quelli che cercano i sottotitoli in televisione”, spiega il prof. Burdo. Tuttavia, anche per loro le soluzioni non sono scontate: “I sottotitoli, se non gestiti correttamente, possono persino creare confusione”. L’esperto cita il fenomeno scientifico noto come effetto McGurk, in cui la percezione di un suono viene alterata dalle informazioni visive. “Se il soggetto vede un labiale e contemporaneamente legge un sottotitolo discordante, il cervello riceve due segnali diversi e tende a confondersi. Questo compromette l’apprendimento, invece di favorirlo, perché si è costretti o a leggere o ad ascoltare. I labiolettori leggono, ma gli emancipati possono anche usare il loro udito riabilitato”.
Infine ci sono gli emancipati, persone che, grazie a un intervento precoce e a un adeguato trattamento protesico riabilitativo, “sentono e parlano bene, vivendo una comunicazione praticamente sovrapponibile a quella degli udenti”. Il professore sottolinea che il merito non è solo dell’impianto cocleare: “Non è l’impianto cocleare che definisce un sordo. È il percorso educativo e riabilitativo che segue a fare la vera differenza”.
UN MODELLO ITALIANO UNICO, MA POCO COMPRESO
L’Italia ha una peculiarità: l’abolizione delle scuole speciali per sordi nel 1977. Questo, spiega il professore, ha favorito l’integrazione scolastica, ma ha anche reso il contesto diverso da quello di altri Paesi. “All’estero esistono ancora scuole speciali, mentre da noi no. Le campagne a favore della LIS si sono basate su modelli costruiti in contesti completamente diversi dal nostro”.
La conseguenza è che la grande maggioranza dei bambini sordi italiani nasce in famiglie udenti e cresce esposta alla lingua italiana, non alla lingua dei segni. “Il 95% dei sordi nasce in famiglie che sentono. Non conoscono nessuna lingua dei segni, per cui il bambino è esposto all’italiano, non alla LIS”, ribadisce.
ASSISTENTI ALLA COMUNICAZIONE: UNA FIGURA IN CRISI DI IDENTITÀ
Nel dibattito sull’inclusione, l’esperto richiama l’attenzione su una figura prevista dalla normativa ma spesso poco efficace: “Le assistenti alla comunicazione sono una figura molto utile sulla carta, ma nella realtà molte di loro non sono preparate per il compito che devono svolgere”.
Spesso si tratta di giovani con una formazione superficiale, centrata su corsi di LIS, e la loro azione si riduce a insegnare pochi segni. “Si crea così un sistema che sembra favorire l’inclusione, ma in realtà produce disastri”, afferma. Secondo il prof. Burdo, questa proliferazione di assistenti non adeguatamente qualificate risponde più a dinamiche che alla risposta di esigenze ideali da parte di bambini e ragazzi sordi.
INCLUSIONE: NON UNA RICETTA UNICA, MA PERCORSI DIFFERENZIATI
Le parole del professore riportano il discorso sul nodo centrale: l’inclusione non può essere standardizzata. “Quando si applica un’unica soluzione, che siano i sottotitoli o la LIS, inevitabilmente qualcuno rimane escluso”, avverte. Ogni categoria di persone sorde ha esigenze comunicative diverse, e ignorare questa complessità significa fallire l’obiettivo dell’inclusione.
Perché questo cambi, è necessario che le politiche scolastiche, lavorative e sociali riconoscano la varietà delle modalità comunicative e costruiscano percorsi su misura. “Solo così – conclude il prof. Burdo – si potranno garantire a tutte le persone sorde pari opportunità di partecipazione, evitando di privilegiare un modello che funziona solo per pochi”.
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