L’encefalite di Bickerstaff (BBE) è una malattia neurologica molto rara che si caratterizza per la presenza di oftalmoplegia, atassia e disturbi dello stato di coscienza (dalla sonnolenza al coma). È stata descritta per la prima volta negli anni ’50 da Bickerstaff più o meno nello stesso periodo in cui Miller Fisher forniva la prima descrizione di un’altra patologia neurologica, la sindrome di Miller Fisher (MFS), che presenta un quadro clinico, per certi aspetti, sovrapponibile (oftalmoplegia, atassia e areflessia o iperreflessia).
Il dott. Sandro Bruno, specialista in Neurologia e responsabile dello stesso reparto presso l’Ospedale di Conegliano, recentemente ha diagnosticato ad un paziente l’encefalite di Bickerstaff e ci ha aiutato a comprendere meglio la natura di questa patologia.

 

“Entrambe le patologie (n.d.r BBE e MFS)” – spiega il dr. Bruno – “fanno parte di un continuum patologico che comprende anche la più diffusa Sindrome di Guillan-Barrè (GB). Si tratta di patologie perlopiù monofasiche che possono insorgere anche in seguito ad infezioni, specie del tratto gastro-intestinale (n.d.r. uno degli agenti eziologici più noti è Campylobacter jejuni) e che devono essere trattate quanto prima. La Sindrome di Guillan-Barrè, ad esempio, può esordire con una tetraplegia flaccida che colpisce gli arti inferiori e, seguendo un andamento ascendente, causare anche diplegia facciale, rischiando di compromettere il comparto respiratorio e, in ultima istanza, quello cardiaco, con conseguenze infauste per il paziente”.

Non è semplice fare diagnosi differenziale fra queste patologie, ma il ritrovamento di anticorpi antiganglioside (anti-GQ1b) nel siero di pazienti con MFS e con BBE ha offerto un notevole contributo, affiancandosi all’analisi del quadro clinico, all’anamnesi e all’indagine neurofisiologica.

La recente pubblicazione di un gruppo di studio giapponese aiuta a inquadrare le differenze tra BBE e MFS, con l’allestimento di un modello in vitro che utilizzi cellule cerebrali microvascolari endoteliali umane (HBMEC) e cellule endoteliali microvascolari periferiche (PnMEC). Attraverso una serie di esperimenti, gli autori hanno osservato che la resistenza elettrica transendoteliale (TEER) e l’espressione di proteine delle giunzioni strette come claudina-5 e occludina si riducono nelle cellule esposte al siero di pazienti con BBE al contrario di quelli con MFS. Questo risultato indica che nei pazienti con BBE l’integrità della barriera emato-encefalica risulta compromessa.

La rottura della barriera emato-encefalica nei pazienti con BBE appare legata alla secrezione di Metalloproteasi (soprattutto MMP9), un gruppo di enzimi che svolgono un ruolo importante nei processi di proliferazione e differenziamento cellulare.

I ricercatori hanno trovato conferma della centralità di MMP9 quando hanno osservato che GM6001, un inibitore delle metalloproteasi, è stato in grado di ristabilire le funzioni della barriera emato-encefalica. Un ulteriore risultato dello studio è legato al ruolo di TNF-alfa, che induce l’espressione di MMP9 e che è implicato nel superamento della barriera emato-encefalica. Infatti, sia il livello di claudina-5 che la TEER aumentano nelle cellule esposte a sieri di pazienti con BBE pre-trattati con un anticorpo in grado di neutralizzare TNF-alfa.

“Il trattamento previsto per queste patologie” – ricorda il dr. Bruno – “consiste generalmente nella plasmaferesi o, meglio ancora, nella somministrazione di immunoglobuline, ma il corretto inquadramento della malattia rimane l’aspetto cruciale”.

In riferimento alla rottura della barriera-ematoencefalica (un criterio diagnostico primario perché legato alla dissociazione albumino-citologica), questo lavoro offre una prima spiegazione a livello molecolare della differenza fenotipica tra due patologie che occupano un posto vicino nello spettro di patologia ma che sono, di fatto, mutualmente esclusive.

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