Sperimentazioni cliniche e malattie rare

Pazienti più informati, burocrazia più snella e maggiori investimenti: questi alcuni dei modi per incrementare il numero dei trial clinici e migliorare la partecipazione

Un bambino con una malattia rara che lo costringe a periodiche infusioni endovenose dell’unico trattamento in grado di guarire i gravi sintomi che la sua condizione gli provoca fin dalla nascita entra in un reparto d’ospedale e viene accolto dal medico che lo aspetta; viene fatto accomodare su una poltrona e un’infermiera, dopo aver ritirato il farmaco dalla farmacia ospedaliera, predispone la flebo per la terapia. Accompagnato dai genitori, alcune ore più tardi il bambino lascia l’ospedale per farvi ritorno diversi giorni dopo e ricominciare il trattamento. Una routine come questa si fonda sulla disponibilità di un farmaco approvato e pronto all’uso per chi ne abbia bisogno; tuttavia, molte persone non immaginano quanto possa essere complesso il percorso di sviluppo che permette di portare una nuova terapia dai laboratori di ricerca al letto del paziente.

LE FASI DI VALUTAZIONE DI UN FARMACO

Che si tratti dell’aspirina per il raffreddore o il mal di testa, oppure di una terapia avanzata per la cura di malattie rare, il cammino di un farmaco è sempre il medesimo e ha inizio con le sperimentazioni in laboratorio e sugli animali: queste possono prolungarsi per diversi anni e sono necessarie a studiare a fondo i meccanismi d’azione e l’eventuale tossicità dei nuovi farmaci. Qualora le risposte ai primi interrogativi scientifici sulle molecole oggetto di valutazione siano incoraggianti, si passa allo sviluppo clinico, cioè alla sperimentazione sull’uomo, che prevede quattro diversi momenti: la Fase I, compiuta su un ristretto numero di volontari sani o di pazienti, ha l’obiettivo di indagare il meccanismo d’azione del farmaco e la risposta dell’organismo allo stesso (metabolizzazione ed eliminazione); la Fase II esamina gli effetti terapeutici e si focalizza sulla dose di farmaco più adatta. In queste due fasi di studio - della durata complessiva di circa 4-5 anni - il perno dell’indagine sono i parametri legati alla sicurezza del medicinale, mentre la sua efficacia diventa oggetto di valutazione soprattutto nella Fase III, che viene condotta su una più grande casistica di persone: questa terza fase può durare fino a 4 anni, ma una volta giunta a conclusione, qualora i risultati depongano a favore dell’affidabilità del farmaco, entrano in gioco enti, come l’EMA (Agenzia Europea per i Medicinali) e l’AIFA, (Agenzia Italiana del Farmaco), che si occupano di valutare tali dati al fine di concedere l’approvazione del nuovo trattamento. La Fase IV, infine, si realizza dopo l’immissione in commercio di una terapia e comprende le procedure di farmacovigilanza (tra cui la segnalazione di eventuali eventi avversi).

Il percorso necessario affinché un farmaco acceda al mercato - e ciò solo se gli esiti di tutte le prove di valutazione saranno ritenuti soddisfacenti - può richiedere fino a 15 anni di lavoro. Tuttavia, nel caso specifico delle malattie rare, le difficoltà di realizzazione di una sperimentazione clinica aumentano e i tempi si allungano, procrastinando l’arrivo di farmaci preziosi per la salute dei malati.

MENO STUDI CLINICI E DIFFICOLTÀ DI PARTECIPAZIONE: LE CRITICITÀ IMPELLENTI

Alcune settimane fa, la European Federation of Pharmaceutical Industries and Associations (EFPIA), insieme a Vaccines Europe, ha reso pubblico un rapporto da cui emerge come nell’ultimo decennio sia stato riscontrato un generale calo degli studi clinici condotti in Europa, calo che, tradotto in numeri, corrisponde a circa 60mila posti in meno per i pazienti. A cosa si deve dunque questo problema? In primo luogo a un apparato di regole molto complesse e ad un ridotto portafoglio di investimenti rispetto ai Paesi dell’area orientale, come la Cina. Ma non solo.

Se consideriamo lo specifico ambito delle malattie rare, le problematiche relative alle sperimentazioni cliniche hanno inizio con la scarsità di pazienti che vi possono partecipare”, conferma Paola Kruger, Paziente esperto EUPATI. “Rispetto ai trial per farmaci o dispositivi destinati a condizioni più comuni, il numero di pazienti da arruolare è molto più ristretto. Ogni malato raro desidera un trial clinico dedicato a un farmaco per la propria patologia ma spesso fatica anche solo a capire se ve ne siano già in corso. Un primo problema del paziente è dunque l’informazione: come si può prendere parte ad una sperimentazione e dove sono dislocati i centri che arruolano i partecipanti”.

Va considerato, inoltre, che non tutti i pazienti possono aderire a un trial clinico: esistono criteri di inclusione specifici da rispettare affinché si creino le condizioni adeguate a valutare correttamente un farmaco. “Ciò implica anche una certa difficoltà per i pazienti a rimanere dentro gli studi clinici”, riprende Kruger. “Una sperimentazione richiede molti sforzi e sacrifici ed è difficoltosa da seguire, specie per chi abbia una famiglia, figli piccoli o un lavoro particolarmente impegnativo: bisogna spiegare al paziente il valore statistico della sua partecipazione affinché trovi la forza di restare dentro le stringenti condizioni dei trial per contribuire a portare a termine il cammino di valutazione di un farmaco sperimentale. Nel contempo, però, occorre mettere in pratica soluzioni che siano di reale aiuto per i pazienti, dal momento che ogni singola rinuncia a partecipare mette a repentaglio il futuro di un trial, e quindi di una possibile terapia”.

STRUMENTI UTILI: I DATI DI REAL WORLD EVIDENCE

Gli studi clinici sono essenziali per capire meglio l’andamento di una malattia rara e le possibili opzioni di trattamento, come ad esempio è accaduto per l’atrofia muscolare spinale (SMA), in cui la conoscenza della storia clinica della patologia ha permesso di arrivare a formulare più di una terapia efficace nel bloccare la progressione dei sintomi”, afferma Marika Pane, Professore Associato di Neuropsichiatria infantile all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Direttore del Centro Clinico NeMO, Area Pediatrica, della Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma. “Tutte le fasi cliniche di studio di un farmaco sono preziose, a cominciare dalle prime fino a quelle in cui si effettuano le validazioni per l’immissione in commercio. Un aspetto di grande peso è il disegno della sperimentazione, ossia il modo in cui questa viene progettata, soprattutto per quelle malattie che presentano una marcata variabilità e una chiara stratificazione per età. Il disegno dello studio deve esser realizzato da chi conosce molto bene la storia naturale di una data patologia, per avere meno errori possibili in fase di valutazione dei risultati”.

Bisogna anche considerare che lo scopo di un trial clinico non è il trattamento della singola persona, bensì la raccolta di dati sulla sicurezza, sul dosaggio e sugli effetti di un trattamento all’interno di un gruppo di partecipanti. Spesso nei trial randomizzati - i più affidabili per le procedure di valutazione di un medicinale - il numero di persone da includere, per quanto più elevato di quello delle prime fasi, rimane basso rispetto al totale di coloro a cui è destinato il farmaco: un problema che è ancora più accentuato nel caso delle malattie rare, in cui i pazienti sono già di per sé pochi, e che richiama l’attenzione sui cosiddetti dati di Real World Evidence (RWE). “Tali dati consentono di creare un quadro più realistico della malattia”, prosegue Pane. “All’inizio dello sviluppo clinico di un farmaco la popolazione di pazienti di studio è selezionata con criteri rigidi - giusti in questa specifica fase - ma quando tale farmaco diventa disponibile per tutti è importante conoscere ciò che accade nella vita reale. Questo perché si generano molti aspetti di variabilità all’interno di una finestra terapeutica più ampia, con risposte differenti al trattamento. I dati RWE servono a sapere quale effetto produce il farmaco in una popolazione ampia e diversificata, allargando così la prospettiva per malattie che hanno un impatto molto basso in termini di numerosità dei pazienti”.

IL VALORE DELLA COMUNICAZIONE MEDICO-PAZIENTE

Tra gli aspetti da potenziare per migliorare l’adesione agli studi clinici balza al primo posto la comunicazione medico-paziente. “In seguito alla pandemia di COVID-19 abbiamo osservato un profondo cambiamento nel modo in cui i pazienti sono seguiti dai medici e nelle modalità di accesso ai centri ospedalieri”, riprende Paola Kruger. “Gli attuali problemi della sanità incidono sul tempo delle visite, intaccando la qualità del dialogo tra il medico e il suo assistito. Questo vale anche per le visite specialistiche, dove il paziente fatica a rivolgere al medico le domande e gli interrogativi che lo assalgono, finendo per rivolgersi ad internet, dove spesso le informazioni sono confuse o del tutto errate”. Tutto ciò ha ovvie ripercussioni negative anche sulla partecipazione agli studi clinici. “Nei corsi che tengo in EUPATI insegniamo al paziente ad essere più proattivo, ad imparare a rivolgere tutte le sue domande al medico e a confrontarsi di più con lo stesso. Per quanto breve, il momento della visita deve essere di qualità. Il cambiamento nell’atteggiamento di un paziente consapevole non passa inosservato e non è difficile da raggiungere: basterebbe organizzare sessioni di training nei reparti e creare opportunità di incontro con i medici, che sono indispensabili sia per chi è malato che per chi ha il compito di curarlo. Ascoltare, infatti, è un prerequisito fondamentale per capire”.

MENO BUROCRAZIA, MAGGIORI INVESTIMENTI

Ad oggi, i due impedimenti che maggiormente ostacolano la realizzazione degli studi clinici sono la burocrazia, che specie in Italia può essere assai opprimente, e la scarsità di investimenti, a causa della quale il nostro Paese fatica a confrontarsi con altre nazioni, come la Cina o gli Stati Uniti. “Nel nostro centro conduciamo la ricerca clinica in maniera autonoma, senza finanziamenti da parte di enti pubblici, e con notevole impegno riusciamo a condurre persino studi clinici di Fase I, sui quali grava un apparato burocratico complesso”, conferma Marika Pane. “Controlli e autorizzazioni sono necessari per rispettare elevati livelli di qualità, ma costano un’enorme fatica e richiedono risorse adeguate, che non tutti i centri ospedalieri posseggono”. Nell’ambito delle sperimentazioni cliniche, quindi, servono investimenti congrui e una prospettiva più ampia per perseguire risultati utili, cercando di risolvere le attuali criticità e procedendo verso l’obiettivo di portare una cura al maggior numero possibile di pazienti. 

 

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