“Per circa dodici anni sono stata all’oscuro dell’assistenza che spettava ai miei due figli, entrambi disabili. E ora che conosco i nostri diritti, mi ritrovo a combattere contro una burocrazia che definire sorda è un eufemismo. Voglio che questo non accada più, e che nessun’altra famiglia si ritrovi nella mia situazione”.  Sono le parole di Silvia, mamma di J., 14 anni, e B., 12, entrambi affetti da una malattia molto rara legata al cromosoma X, che si chiama Sindrome di Allan-Herndon-Dudley (Ahd) e racconta a Tamara Ferrari di Vanity Fair come siano stati lasciati all’oscuro dei loro diritti.

 

La sindrome Ahd, che causa un ritardo mentale e problemi muscolari che fanno sì che la maggior parte delle persone che ne soffrono non siano in grado di camminare, e spesso neanche di stare su una sedia a rotelle, è talmente rara da colpire una persona su un milione, e per questo, forse, ai bambini di Silvia non è stata subito diagnosticata la patologia.

“Solo quattro anni fa siamo riusciti a dare un nome al male che affligge i nostri bambini. Prima, nonostante avessimo pellegrinato tra diversi ospedali, anche esteri, nessuno aveva saputo dirci che cosa avevano”.

“Quando è nato J. io avevo vent’anni, al terzo mese ci siamo accorti che il bambino aveva le braccia rigide, le manine chiuse, non controllava il capo, non riusciva ad afferrare i giocattoli. Rispetto agli altri bambini della sua età, c’era un ritardo generale. Dagli esami è risultata una mancanza di mielina (una guaina che circonda la maggior parte delle fibre nervose e permette di garantire un’alta velocità di trasmissione dell’impulso nervoso nel corpo, ndr), ma nessuno ha capito che si era in presenza di una malattia ereditaria. Invece, un dottore ci ha detto che nostro figlio forse era rimasto senza ossigeno durante il parto. E poiché sulla mia cartella clinica c’era scritto che alla nascita J. aveva il cordone ombelicale intorno al collo, ci abbiamo creduto. Almeno fino a quando non è nato il nostro secondo figlio.”

“Eravamo molto contenti di questo nuovo evento - ricorda la mamma - ma al terzo-quarto mese si è ripetuta la stessa cosa del fratellino. Ci siamo spaventati. Abbiamo scoperto che anche lui aveva un problema di mielinizzazione. A quel punto è iniziata una via crucis tra gli ospedali di Pavia, Pisa, Firenze, Genova, Roma, Trieste. Tutti confermavano che si trattava di un problema genetico e che, se avessimo avuto altri figli, al 25 per cento sarebbero potuti nascere con la stessa problematica. Certo, averlo saputo prima… E, comunque, nonostante tanti esami non c’era una diagnosi. Non ci siamo arresi. Abbiamo continuato a indagare, e alla fine, all’ospedale Gaslini di Genova, i medici hanno dato un nome alla malattia dei nostri figli, che è incurabile”.

“Non avendo mai vissuto certe realtà, non sapevo come muovermi, e le persone che mi stavano attorno, quelle che avrebbero dovuto indirizzarmi, i medici e il personale del Comune dove abito, mi hanno dato informazioni sbagliate. Nessuno mi ha informata del fatto che avevamo diritto a una assistenza domiciliare integrata. Ero convinta di dovermela sbrigare da sola, ho smesso di lavorare per badare ai bambini”.

“Ero talmente all’oscuro dei nostri diritti, che quando mi hanno concesso l’aiuto di una persona che veniva a casa per otto ore a settimana mi sono ritenuta fortunata. D’altra parte al Comune mi avevano detto che un’assistenza così non ce l’ha nessuno”.

Finché, nel settembre 2011, Silvia non scopre che in Italia, almeno sulla carta, esistono diverse forme di aiuti ai quali si può avere accesso.

“È accaduto quando, di punto in bianco, la responsabile del settore socio-culturale del Comune mi ha chiamata per avvisarmi che, a causa della mancanza di fondi, stavano per sospendere il trasporto per la fisioterapia. L’ho implorata di non farlo: “Non potete lasciarli senza fisioterapia, già la fanno solo due volte a settimana, e per 45 minuti”. Mi sono rivolta a un avvocato, e poi ho iniziato a studiare le leggi”.

Da quel momento per la mamma inizia una guerra a suon di carte e avvocati contro il Comune del suo paese. “Più loro negavano i nostri diritti, e più io trovavo conferme tra le norme su quello che ci spettava. Come quando nel 2012, dopo che li avevo iscritti al centro estivo, dal Comune mi hanno chiamato sostenendo che dovevo presentare un modello con i redditi della famiglia. L’accesso era escluso se superavi una certa somma, ma solo per i bambini disabili. Ho protestato, e siccome le mie proteste non sortivano risultati, ho scritto a un quotidiano locale, e dopo che è uscito l’articolo non c’è più stato bisogno di presentare quel modello, e i miei figli sono andati al centro estivo”.

“Nel settembre 2013, poiché sul sito del Comune c’era scritto che era garantita l’assistenza domiciliare integrata ai disabili gravi, ne ho fatto richiesta. Mi hanno risposto che si riferivano alle persone anziane o ai disabili adulti. Anche lì, un’altra battaglia”.

L’ultima è iniziata pochi mesi fa. “Il giorno del funerale di mia mamma mi arriva dal Comune una richiesta di pagare 60 euro per B. e 200 per J. per il trasporto a scuola. Ma la legge stabilisce che fino alla scuola dell’obbligo il trasporto è gratuito. Spedisco una copia della legge, rispondono che hanno preso in considerazione la mia e-mail e stanno revisionando il tutto”.

“Nel frattempo, da fine luglio siamo senza assistenza domiciliare al mattino. Con mio marito facciamo i turni al lavoro per poter stare a casa. Non abbiamo più vita, oltre a dover combattere contro la disabilità ci ritroviamo a lottare contro la burocrazia che tenta di negare quei pochi diritti che ci spettano. Vorrei che questa situazione si risolvesse. E spero anche che la mia storia sia di esempio a tutti i genitori che si trovano con un figlio disabile: studiate, informatevi, non lasciatevi ingannare dalla burocrazia. Bisogna conoscere i propri diritti per poterli difendere”.

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Per maggiori informazioni sulla Sindrome di Allan-Herndon-Dudley clicca qui.

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