erapia domiciliare per le malattie rare

L’esperienza di Elisabetta Conti (AIGlico) e l’appello congiunto delle associazioni Fabry, Gaucher e MPS: “Serve coerenza tra le regole e la vita dei pazienti”

Per chi convive con una malattia rara e deve sottoporsi regolarmente a terapia enzimatica sostitutiva (ERT), la Regione Emilia-Romagna ha introdotto un cambiamento importante. Dal 15 settembre 2022 è attivo un nuovo percorso regionale (delibera 1415) che permette di ricevere queste cure non solo nei centri ospedalieri specialistici, ma anche in strutture territoriali più vicine, come ospedali di riferimento, case della comunità, poliambulatori e, in alcuni casi, direttamente a domicilio. Il tutto secondo quanto già previsto dalla Determina AIFA n. 341/2020, previa valutazione clinica, consenso informato e coinvolgimento delle Unità di Valutazione Multidimensionale (UVM).

La possibilità di ricevere la terapia domiciliare è valutata da un’équipe multidisciplinare. In questi casi, è il professionista sanitario incaricato a garantire l’esecuzione del trattamento secondo le indicazioni previste dal piano assistenziale definito dall’Unità di Valutazione.

L’obiettivo è semplice, migliorare la qualità della vita delle persone, riducendo gli spostamenti e l’impatto delle terapie sulle attività quotidiane e, al tempo stesso, garantire continuità, sicurezza e sostenibilità nella presa in carico.

L’ESPERIENZA DELL'ASSOCIAZIONE ITALIANA GLICOGENOSI

Ma è davvero così? Lo abbiamo chiesto a Elisabetta Conti, Presidente dell'Associazione Italiana Glicogenosi (AIGlico), fondata nel 1996 da un gruppo di genitori della zona di Milano con figli affetti da glicogenosi di tipo 1. Oggi l’associazione, che aderisce all’Alleanza Malattie Rare, conta circa duecento soci, ma i pazienti italiani potrebbero essere molti di più. Considerando solo la malattia di Pompe (glicogenosi di tipo 2), una delle tre forme più frequenti (insieme alla tipo 1 e 3, che rappresentano oltre il 90% dei casi), si stima che le persone coinvolte siano circa trecento.

Qual è la situazione reale?

“Attualmente, le terapie enzimatiche sostitutive disponibili per i nostri pazienti sono tre e rientrano tutte nella categoria non ospedaliera. Questo significa che possono essere somministrate direttamente a domicilio del paziente, con la supervisione di un medico.

Per alleggerire il carico sulle strutture sanitarie territoriali, due case farmaceutiche, che producono farmaci per questo gruppo di malattie rare, come le glicogenosi, hanno messo a disposizione un servizio gratuito di trattamento domiciliare. Questo servizio include infermieri specializzati, formati specificamente sulla preparazione e somministrazione del farmaco e sulla patologia stessa. Il loro compito sarebbe preparare il farmaco presso il domicilio del paziente, effettuare l'infusione e rimanere a disposizione per l'intera durata della terapia. Ho usato il condizionale perché, purtroppo, due Regioni, l'Emila Romagna e il Piemonte, hanno scelto di non aderire a questa offerta”.

Quali sono le motivazioni?

“Formalmente, le Regioni non vogliono che un servizio privato si frapponga a un servizio pubblico. Chi richiede la terapia domiciliare può rivolgersi all'ADI (Assistenza Domiciliare Integrata), che però non dispone delle risorse umane ed economiche sufficienti per supportare un paziente per l'intera durata dell'infusione, che di solito dura circa quattro ore. Gli infermieri dell'ADI territoriale, infatti, sono spesso uno o due al massimo e dovrebbero assistere più pazienti nell'arco di una singola mattina, una cosa impensabile per un'infusione così lunga.

Di conseguenza, la Regione indirizza i pazienti all'ADI, ma l'ADI stessa ammette di non riuscire a fornire il servizio. A questo punto, il paziente si trova in una situazione paradossale, non può usufruire del servizio pubblico, ma è anche impossibilitato ad accedere a una prestazione gratuita offerta dalle aziende farmaceutiche”.

Perché la casa farmaceutica offre questo servizio?

“Per la nostra patologia è una cosa nata durante la pandemia da Covid-19. In quel periodo, gli ospedali non erano considerati luoghi sicuri, per questo motivo l'AIFA emanò una delibera che autorizzava le terapie domiciliari. In tutte le altre Regioni italiane si è fatto ricorso al servizio privato offerto, ma non in Emilia-Romagna e in Piemonte, nonostante dal 2024 i farmaci siano stati riclassificati per uso domiciliare, quando prima erano somministrati solo in ospedale.

Come associazione, abbiamo cercato in ogni modo di spiegare le nostre esigenze, inviando lettere e facendo appelli. Tra i pazienti ci sono anche molti bambini che, se potessero ricevere la terapia a casa, non perderebbero giorni di scuola. Allo stesso modo, gli adulti non dovrebbero assentarsi dal lavoro, potendo accordarsi con l'infermiere per la somministrazione.

Le altre Regioni non riscontrano problemi, quindi le ragioni di questo "no" rimangono un mistero. In pratica, i pazienti di Emilia-Romagna e Piemonte non possono usufruire né di un servizio privato gratuito, né di quello pubblico, che è sovraffollato.

La cosa particolare è che non è la prima volta che lo Stato si affida a enti privati, basti pensare agli esami diagnostici o di laboratorio eseguiti da strutture private convenzionate. Perché, quindi, questo servizio dovrebbe essere diverso?”

Cosa può fare il paziente?

“Continuare ad andare in ospedale è spesso l'unica opzione. Vi porto il mio esempio: sono una persona disabile e faccio fatica a spostarmi, ho sempre bisogno di un accompagnatore. Chi mi accompagna può usufruire della Legge 104, mentre io devo prendere ferie ogni volta che faccio terapia, due giorni al mese. In pratica, tutte le mie ferie sono destinate ai viaggi in ospedale. E, a proposito di ferie, molti di noi sono costretti a prenderle nel periodo compreso tra una terapia ospedaliera e l’altra, rendendo difficile programmare una vacanza. Con l'infermiere a domicilio, invece, ci si mette d'accordo, è tutto più facile.

Quando ho chiesto di poter fare la terapia domiciliare, come previsto dall'AIFA per le persone disabili che hanno difficoltà a spostarsi, mi è stato risposto che ero troppo disabile e che andare in ospedale sarebbe stata per me un'occasione per uscire di casa e socializzare. Insomma, se sei disabile puoi stare a casa, ma se sei molto disabile è meglio che tu esca.

Ci sono sicuramente casi in cui il paziente preferisce andare in ospedale, magari perché ha creato un rapporto di fiducia con gli infermieri, con gli altri pazienti, e si sente più a suo agio. In altri casi, invece, è stato imposto di rimanere a casa per liberare posti letto, laddove chi desidererebbe la terapia domiciliare non può averla. Un vero e proprio paradosso tutto italiano.

C'è anche un importante discorso di sostenibilità. Nel mio caso, il farmaco è preparato in farmacia il pomeriggio prima dell'infusione. Se il paziente si ammala la mattina stessa, il farmaco si butta via. Se invece l'infermiere arriva a casa e capisce che non sto bene, può semplicemente tornare il giorno dopo, poiché è lui stesso a preparare il farmaco sul posto”.

C’è una motivazione ufficiale?

“Sì, la motivazione è che l'infusione debba essere fatta in ospedale perché, in caso di complicanze, le strutture sono attrezzate e c'è una terapia intensiva disponibile. Questa può anche essere una motivazione valida, ma nel mio caso, ad esempio, sono 20 anni che faccio l'infusione. Se dovessi avere una reazione allergica, chiamerei immediatamente l'ambulanza. La stessa cosa accadrebbe con l'ADI, si chiamerebbero subito i soccorsi.

Tra l'altro, è paradossale che proprio la Regione Emilia-Romagna si dichiari all'avanguardia nella telemedicina per poi rifiutare un servizio completamente gratuito, lo voglio ribadire, e utile ai pazienti. Quando vado a fare la mia terapia, devo recarmi in un reparto multidisciplinare e molto spesso mi sento dire: 'il giovedì non puoi venire perché abbiamo le malattie infettive, il venerdì nemmeno perché c'è l'allergologo'. Sarebbe tutto più facile se potessi liberare un posto per chi ne ha davvero bisogno.

Vorrei, inoltre, ricordare che è il medico a valutare se un paziente è idoneo alla terapia domiciliare, anche in base a eventuali episodi di reazioni allergiche. Noi non vogliamo sostituirci al medico, è lui che decide, ma il paziente dovrebbe poter scegliere dove è più comodo fare la terapia, se possiede i requisiti per la domiciliare. E invece, sono passati cinque anni e ancora non possiamo scegliere”.

L’APPELLO COLLETTIVO DELLE ASSOCIAZIONI CHE SI OCCUPANO DI LSD

Un appello, quello della presidente di AIGlico, che non rimane isolato. A rilanciarlo sono anche tre associazioni da anni in prima linea nella tutela delle persone con malattie metaboliche lisosomiali (LSD): AIAF (Associazione Italiana Anderson-Fabry), AIG (Associazione Italiana Gaucher) e AIMPS (Associazione Italiana Mucopolisaccaridosi), che dal 2018 stanno collaborando tra di loro con diverse iniziative per sensibilizzare le istituzioni sulla necessità di porre fine a queste disparità regionali, e grazie alla cui spinta si è arrivati proprio alla Delibera 1415/2022 in Emilia Romagna.

“Purtroppo la realtà dei fatti dimostra che questa delibera regionale è inapplicabile”, dichiara Stefania Tobaldini, presidente di AIAF. “Le condizioni che sono state imposte per poter accedere alla terapia domiciliare sono così restrittive da scoraggiare pazienti e medici, rendendo il percorso di attivazione estremamente complesso. Inoltre, date le scarse risorse disponibili, anziché permettere la somministrazione della terapia tramite un servizio privato (che non ha nessun costo per il servizio sanitario regionale), la normativa impone nel giorno della somministrazione anche la presenza di un caregiver familiare adeguatamente formato, dal momento che gli infermieri dell’ADI non possono rimanere per tutta la durata della terapia. Questo vincolo – sottolinea ancora Tobaldini – trasforma la terapia domiciliare in un onere non solo per il paziente, ma anche per il suo familiare, che deve a sua volta rendersi disponibile e assentarsi dal lavoro, magari dovendo ricorrere a permessi o ferie. E purtroppo, le difficoltà a cui assistiamo periodicamente non si limitano a Emilia Romagna e Piemonte. Anche in altre regioni, tra cui anche il Veneto dove esiste un’apposita delibera dal 2015, ogni nuova richiesta di domiciliazione si scontra con ostacoli burocratici e culturali. A tratti abbiamo la percezione che il paziente sia considerato solamente come un malato e quindi non abbia diritto a una vita al di fuori della sua patologia e pertanto l’unico luogo dove possa curarsi sia l’ospedale. Non viene quindi neppure preso in considerazione l’impatto che potrebbero avere i frequenti accessi in ospedale sull’aderenza terapeutica, sulle spese di viaggio, sul tempo sottratto alla vita. Ma quello che sorprende è che spesso non venga neppure considerato l’effettivo risparmio economico che comporterebbe l’attivazione del servizio domiciliare privato, che è una realtà per le malattie lisosomiali da ormai 15 anni. A tutto questo si aggiunge una chiusura mentale che rende il cambiamento ancora più arduo. Non possiamo più accettare – conclude la presidente AIAF – che, in alcune Regioni, decisioni organizzative fredde e disconnesse dalla realtà limitino l’accesso a un diritto fondamentale: la possibilità di curarsi nel modo più adatto alle proprie esigenze. La terapia domiciliare, quando è clinicamente appropriata, è una scelta di buon senso che restituisce spazio alla vita quotidiana e alla dignità delle persone”.

A ribadire l’urgenza è anche Fernanda Torquati, presidente di AIG, che afferma: “Non si può continuare a ignorare il disagio concreto dei pazienti e delle famiglie. Parliamo di ore sottratte al lavoro, alla scuola, alla normalità. In molte Regioni italiane questo è già realtà: perché altrove deve essere ancora un muro? Purtroppo ancora oggi abbiamo malati di serie A che possono fare le infusioni a casa, e di serie B, che non possono. Le terapie domiciliari sono essenziali, perché cambiano completamente la vita. Per molti, – sottolinea con fermezza Torquati – accedere a una terapia domiciliare significa rinascere. I malati hanno necessità di seguire per tutta la vita un percorso che li porta ogni 14 giorni in ospedale per fare le infusioni, ma chi lavora come fa? Se chiedono i permessi, li esauriscono presto. E poi capita che venga loro un raffreddore, che per questi pazienti è più complicato da risolvere e dura circa 15 giorni, e siano costretti a fare ricorso ai giorni di malattia e/o di ferie, perché non hanno altra scelta. In teoria, questi pazienti dovrebbero fare 26 infusioni in un anno. Questo – conclude la presidente AIG – comporta anche un evidente svantaggio sociale, perché è molto difficile trovare lavoro quando si dice che per due volte al mese si sarà costretti ad assentarsi, oltretutto per tutta la vita”.

Chiude con forza anche Flavio Bertoglio, presidente di AIMPS: “Le famiglie non chiedono scorciatoie, ma coerenza. Se esistono strumenti sicuri e normati per facilitare l’accesso alle cure, allora vanno messi in pratica. È una questione di giustizia e di rispetto. Non si può più aspettare. Oltretutto, – incalza Bertoglio – nelle strutture pubbliche bisogna fare i conti con i turni del personale sanitario, che spesso ‘accelerano’ l’infusione per rientrare negli orari dell’ambulatorio: una pratica che, come hanno dimostrato diversi studi scientifici, non consente al paziente di assorbire correttamente l’enzima della terapia sostitutiva. Inoltre, i giorni di permesso concessi dalla legge 104 non sono mai sufficienti a coprire queste esigenze, e i genitori sono costretti ad attingere alle ferie. Per non parlare delle spese che le famiglie devono affrontare per portare i figli in un ospedale, a volte lontano decine di chilometri. Insomma, tutte le valutazioni sono a favore della home therapy. Con l’Home Therapy, peraltro, il Sistema Sanitario non ha che da risparmiare. Il modello di terapia domiciliare creato per le lisosomiali dovrebbe essere applicato a tutte le patologie possibili, non certo rifiutato. L’immotivato diniego di alcune regioni ci lascia alquanto perplessi, speriamo di poter andare in fondo alla questione quanto prima”.

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