Il controllo dell’espressione genica è un passaggio fondamentale per la vita della cellula e si avvale di meccanismi di regolazione a svariati livelli che consentono la sintesi delle proteine necessarie al mantenimento delle funzioni cellulari essenziali per la vita. L’alterazione di gruppi di geni può causare malattie specifiche, come nel caso della Policitemia Vera (PV), una patologia mieloproliferativa rara che affligge quasi cinquemila italiani e che si caratterizza per un aumento di volume dei globuli rossi, al quale può associarsi un aumento incontrollato dei globuli bianchi e delle piastrine.
I sintomi iniziali sono piuttosto generici e comprendono astenia, rossore del volto, cefalee persistenti e parestesie ma, in alcuni casi, possono insorgere complicazioni come trombosi ed emorragie e, più raramente, alcuni pazienti possono andare incontro a mielofibrosi, leucemie acuta e sindrome mileodisplastica.
La policitemia vera è una diretta conseguenza della mutazione a carico del gene JAK2-V617F nonostante la medesima mutazione sia riscontrabile anche in pazienti con mielofibrosi e trombocitosi, le quali pur evolvendo attraverso storie naturali diverse, presentano fenotipi in parte sovrapponibili alla policitemia vera.
Nel tentativo di definire con maggior precisione le aberrazioni molecolari che sottendono a questa patologia, un gruppo di ricercatori coordinati dal professor Spivak dell’Ematologia della Johns Hopkins University School of Medicine, ha arruolato 19 pazienti con policitemia vera e mutazione del gene JAK2-V617F, studiando l’espressione genica nelle cellule staminali ematopoietiche CD34-positive e confrontandola con quella dei controlli sani.
L’obiettivo è stato quello di eliminare potenziali fattori confondenti, come il sesso, per elaborare un metodo capace di classificare i pazienti sulla base dell’andamento della patologia ed indagare a fondo i percorsi molecolari che conducono alla malattia, così da elaborare una terapia genica mirata.
Lo studio pubblicato su The New England Journal of Medicne mette in luce l’esistenza di 102 geni - condivisi sia da pazienti di sesso femminile che maschile - con diversa regolazione dell’espressione genica, che ha consentito di suddividere i pazienti in due gruppi con caratteristiche cliniche differenti e indipendenti dall’età, dal carico mutazionale JAK2-V617F e dal numero di piastrine e globuli bianchi. Le differenze principali tra i due gruppi interessano parametri come la durata della malattia, il livello di emoglobina, l’insorgenza di eventi trombotici e di splenomegalia, l’esposizione a chemioterapia e splenectomia, la sopravvivenza media e il tasso di trasformazione leucemica.
In particolare, la scoperta di una patologia più aggressiva che può più facilmente accompagnarsi a mielofibrosi e leucemie, associata al primo gruppo di pazienti, costituisce un risultato rilevante in termini prognostici. Tuttavia, la conferma che i due gruppi non presentano significative differenze rispetto al carico mutazionale JAK2-V617F avvalora l’esistenza di altre mutazioni somatiche, oltre a quella di JAK2, che agiscono in sinergia e si collegano all’evoluzione di eventi infiammatori e trombotici legati ad uno specifico fenotipo della malattia. I percorsi genetici e molecolari determinati da queste mutazioni ed i loro prodotti rappresentano un banco d’indagine essenziale per lo sviluppo di una cura contro questa patologia.
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