Elena Verrecchia

La dott.ssa Elena Verrecchia: “Di fronte a un bambino con un ritardo cognitivo, problemi di udito e infezioni ricorrenti, occorre che scatti il sospetto della malattia”

In un recente studio condotto in Italia, pubblicato sulla rivista scientifica Advances in Therapy, sono state prese in esame le principali difficoltà che le persone affette da alfa-mannosidosi si trovano a dover affrontare nel momento in cui intraprendono il loro percorso alla ricerca di una diagnosi e una terapia per questa rara malattia metabolica, difficoltà che sono state analizzate da una duplice prospettiva: quella dei medici che si occupano della patologia e quella dei caregiver che assistono quotidianamente i malati. Per approfondire quanto emerso dall’indagine, abbiamo intervistato la prima autrice del lavoro, la dottoressa Elena Verrecchia, Dirigente medico dell’Unità Operativa Complessa di Continuità Assistenziale della Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli” IRCCS di Roma.

Dottoressa Verrecchia, come prima cosa potrebbe dirci in cosa consiste l’alfa-mannosidosi e cosa la determina?

Si tratta di una malattia rara da accumulo lisosomiale, una condizione geneticamente determinata, a trasmissione autosomica recessiva, in cui c’è una variazione genetica che comporta un difetto della funzionalità dell’enzima alfa-mannosidasi lisosomiale. Il difetto di questo enzima porta ad un accumulo progressivo di alcuni zuccheri complessi - gli oligosaccaridi, presenti in tutte le cellule dell’organismo - che causa delle manifestazioni cliniche molto variabili in termini di gravità e di tempistica di comparsa. Tali manifestazioni possono essere: difficoltà motorie, immunodeficienza con possibili infezioni ricorrenti delle vie aree e soprattutto dell’orecchio, deficit cognitivi, del linguaggio e dell’udito e, in taluni casi, deformazioni facciali e disostosi. Fino a qualche anno fa, in letteratura si identificava la malattia con tre tipi a severità crescente. Oggi, considerando l’ampia variabilità fenotipica, si parla di un continuum della malattia e di un fenotipo severo in cui prevale, tra le manifestazioni cliniche, l’interessamento della sfera neurologica. Questo cambio di prospettiva è importante per le conseguenze che può portare nella scelta delle terapie migliori da adottare.

Da cosa nasce l’esigenza di condurre il vostro rapporto sull’alfa-mannosidosi? Come mai è stato deciso di condurre lo studio sulla base della prospettiva di caregiver e medici?

L’esigenza è nata da una considerazione di ordine generale sull’alfa-mannosidosi: si tratta di una patologia subdola che nelle fasi iniziali può essere misconosciuta, quindi non diagnosticata, comportando delle ripercussioni cliniche negative per i pazienti che ne sono affetti. La valutazione che abbiamo voluto condurre nel nostro studio, con il dott. Sicignano e la prof.ssa Silvestri, in collaborazione con l’azienda Chiesi, mirava ad evidenziare le difficoltà incontrate dai pazienti e dai loro caregiver per raggiungere la diagnosi di questa malattia considerata ultra rara. Il nostro obiettivo era quello di contribuire alla sensibilizzazione medica in merito a questa condizione perché possa essere considerata, nella diagnostica differenziale, almeno come sospetto clinico.

Quali sono le principali difficoltà riportate dai pazienti/caregiver in ambito diagnostico?

La maggiore difficoltà è trovare un clinico che pensi all’esistenza di questa malattia, che abbia, per così dire, un pensiero ‘laterale’ nel momento in cui un paziente presenta una storia abbastanza particolare. Ossia, di fronte a un bambino con un ritardo cognitivo, problemi di udito e infezioni ricorrenti non bisogna focalizzarsi sul singolo sintomo, ma è importante avere una visione d’insieme che faccia comprendere che ci potrebbe essere una connessione tra questi sintomi tale da indurre un sospetto diagnostico. Una volta che si arriva a sospettare che il paziente possa avere l’alfa-mannosidosi, la diagnosi vera e propria diventa semplice. Il vero problema, quindi, è far scattare il sospetto. Trattandosi di una patologia ultra rara, molti clinici non ne conoscono l’esistenza e in questi casi – partendo da ciò che dicevano i latini, ossia che sappiamo riconoscere solo quello che conosciamo – la diagnosi diventa impossibile.

In cosa consiste l’algoritmo diagnostico messo a punto nel 2019 da un gruppo di lavoro internazionale?

L’algoritmo del 2019 è stato elaborato per suggerire il sospetto di alfa-mannosidosi nella maggior parte delle strutture sanitarie, per poter arrivare precocemente alla diagnosi della malattia. Questo algoritmo si basa sull’identificazione dei sintomi cardinali dell’alfa-mannosidosi, distinguendo tra pazienti con età minore di 10 anni e pazienti con età superiore a 10 anni. La presenza di questi sintomi cardinali dovrebbe indurre il medico a indagare l’esistenza di eventuali altri sintomi aggiuntivi nel paziente e, nel caso li riscontrasse, far scattare il sospetto dell’alfa-mannosidosi. I sintomi cardinali in bambini con meno di 10 anni sono rappresentati dalla perdita di udito e dal ritardo nell’acquisizione del linguaggio. In presenza di questi sintomi, il medico è invitato a cercarne altri, come ritardo cognitivo o motorio o anomalie della facies. La compresenza dei sintomi cardinali e di almeno altri due sintomi deve indurre il medico a richiedere l’indagine enzimatica e l’analisi molecolare per confermare il sospetto di alfa-mannosidosi. Per quanto riguarda i pazienti con età superiore a 10 anni, i sintomi cardinali sono il ritardo mentale e un deficit motorio o manifestazioni psicotiche. In questo caso, i sintomi aggiuntivi da ricercare sono ipoacusia, disabilità intellettive e disturbi motori con atassia o esostosi ossea.

Quanto è importante una diagnosi precoce nell’alfa-mannosidosi?

Una diagnosi precoce è estremamente importante. Infatti, man mano che gli oligosaccaridi si accumulano nell’organismo, peggiorano le caratteristiche cliniche della malattia. Approdare a una diagnosi precoce permette di adottare una terapia mirata in grado di fornire ai pazienti l’enzima deficitario, producendo così un beneficio clinico che è tanto maggiore quanto più è precoce l’inizio della terapia.

Perché la diagnosi neonatale di alfa-mannosidosi non è così diffusa?

La diagnosi neonatale si può fare quando si ha la possibilità di condurre screening neonatali con indagine enzimatica; essendo l’alfa-mannosidosi una malattia molto rara, non è inserita di routine nello screening neonatale che si fa abitualmente, e non tutte le regioni sono abilitate a condurre lo screening neonatale delle malattie rare da accumulo lisosomiale.

Approdati a una diagnosi certa, quali sono le principali opportunità terapeutiche che si prospettano al paziente e quali benefici portano?

Fino a qualche anno fa non c’erano grosse possibilità terapeutiche per i pazienti, considerando che il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche non ha portato i benefici sperati. Pertanto, per molti anni l’unica opzione terapeutica era quella sintomatica, basata su cicli di fisioterapia, riabilitazione motoria, logopedia e somministrazione di farmaci per correggere l’immunodeficienza. Dal 2018 le cose sono cambiate con l’arrivo di una terapia specifica - la terapia enzimatica sostitutiva a base di velmanase alfa - che permette un rallentamento della progressione della patologia con conseguente miglioramento delle condizioni generali e della qualità di vita. Si tratta di benefici tanto maggiori quanto più precocemente è iniziato il trattamento.

Secondo medici e personale sanitario, quali sono le principali criticità da affrontare per migliorare diagnosi e trattamento dell’alfa-mannosidosi?

La criticità maggiore è quella della scarsa conoscenza della patologia da parte del medico, a causa della quale il paziente non viene riconosciuto come affetto da questa malattia. Possiamo dire, quindi, che manca o vi è una ridotta cultura sulle malattie rare, il cui carico diagnostico è delegato ai Centri specialistici.

Quanti sono oggi in Italia i pazienti con diagnosi di alfa-mannosidosi?

In Italia non si conosce esattamente il numero di pazienti affetti da alfa-mannosidosi poiché non c’è un vero e proprio registro nazionale. Sono alcune singole regioni ad avere un dato parziale. Verosimilmente, il numero dei pazienti complessivo è sottostimato poiché alcuni bambini, vivendo lontani dai principali Centri di riferimento per le malattie rare, non sono riconosciuti come affetti da alfa-mannosidosi.

Dato che il ruolo dei caregiver è fondamentale, di quale tipo di supporto necessitano le persone/i familiari che si prendono cura dei pazienti con alfa-mannosidosi?

Quello con alfa-mannosidosi è un paziente molto complesso, con differenti evoluzioni del quadro clinico nel corso della sua vita, pertanto per il caregiver è fondamentale poter facilmente e rapidamente accedere alle strutture sanitarie di riferimento. Sarebbe importante, sia per il paziente che per il suo caregiver, poter seguire a domicilio alcune terapie di riabilitazione, come ad esempio la fisioterapia. Lo stesso farmaco velmanase alfa, per le sue caratteristiche di terapia endovenosa e la recente immissione in commercio, richiede la necessità, da parte del paziente e quindi del caregiver, di doversi recare settimanalmente in ospedale per il trattamento. La recente situazione sanitaria, con il lockdown dello scorso anno dovuto alla pandemia di COVID-19, ha contribuito ad accelerare la possibilità di portare a domicilio la terapia enzimatica sostitutiva, a condizione che il paziente avesse un quadro clinico stabile e il trattamento fosse già iniziato da diverso tempo. Considerando che l’infusione dura circa un’ora - oltre al tempo propedeutico al controllo dei parametri vitali, prima e dopo la somministrazione - la determina di AIFA sulle terapie domiciliari ha permesso ai pazienti e ai loro familiari/caregiver di evitare il viaggio in ospedale in un periodo particolarmente critico come quello della pandemia.

A quali conclusioni approda il vostro studio?

Il nostro studio, in conclusione, ha rilevato l’importanza di fare sensibilizzazione in ambito medico per consentire di instillare nel clinico il dubbio che possa esserci una situazione di malattia rara tale da attivare un percorso diagnostico precoce, poiché prima si effettua la terapia, maggiori possono essere i benefici per il paziente.

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