Intervista a Massimo Marra, Presidente dell'associazione CIDP Italia APS
L'associazione CIDP Italia prende il nome dalla sigla internazionale della polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica, anche se in realtà si occupa di un gruppo di malattie che si manifestano nello stesso modo e per le quali le stesse terapie sono efficaci. Queste comprendono non solo la CIDP, riconosciuta in Italia come malattia rara con il codice di esenzione RF0180, ma anche la neuropatia motoria multifocale (codice RF0181), la sindrome di Lewis-Sumner (codice RF0182) e la sindrome di Guillain-Barré (codice RF0183).
Secondo gli ultimi dati ufficiali del Centro Nazionale Malattie Rare, in Italia sarebbero 4.870 le persone che hanno una di queste diagnosi: una stima sostanzialmente in linea con i dati epidemiologici. La maggior parte sono pazienti affetti da CIDP, mentre i casi di neuropatia motoria multifocale sono molti meno. Bisogna tenere presente inoltre che, fino all'aggiornamento dei LEA avvenuto 7-8 anni fa, esisteva solo il codice di esenzione RF0180.
“Oggi la capacità di diagnosi è abbastanza diffusa”, spiega Massimo Marra, Presidente di CIDP Italia APS. “Nel 2009, quando è nata la nostra associazione, in Italia c'erano solo una decina di centri autorizzati alla diagnosi e alla terapia di queste malattie, mentre ora ne abbiamo ben 140, e questo rappresenta la possibilità di essere presi in carico nell'ospedale più vicino a casa. È un risultato ottenuto sicuramente grazie al nostro lavoro, ma non sarebbe stato possibile senza l'impegno della nostra società scientifica di riferimento, l'Associazione Italiana per lo studio del Sistema Nervoso Periferico (ASNP), e di tutta la comunità italiana delle malattie rare”.
CIDP Italia si dedica ad attività di informazione, sensibilizzazione e supporto. “Cerchiamo di intervenire in tempi rapidi laddove si segnalano problemi di accessibilità alle terapie, realizziamo iniziative, perlopiù in collaborazione con la società scientifica ASNP o con altre associazioni, e proviamo a stimolare il dibattito su queste malattie. Da tanti anni abbiamo un premio alla miglior tesi di laurea sulle malattie di cui ci occupiamo e al miglior giovane ricercatore. Siamo molto attivi anche a livello europeo: alcuni anni fa, insieme a Jean-Philippe Plançon, presidente dell'associazione francese AFNP, abbiamo fondato EPODIN, la federazione europea delle neuropatie disimmuni, della quale Plançon è l'attuale presidente. EPODIN è nata anche grazie delle attività della rete di riferimento europea ERN EURO-NMD, dedicata alle malattie neuromuscolari, nella quale sia io che Jean-Philippe siamo rappresentanti eletti dei pazienti nel board del progetto. Queste patologie a volte esordiscono in modo abbastanza irruento, altre volte invece in modo più lento, e si manifestano con difficoltà motorie agli arti, sia alle mani che alle gambe, per lo più in modo simmetrico, e con sintomi di tipo sensitivo: formicolii costanti agli arti, simili a punture di spillo, e perdita di sensibilità. La perdita di capacità motoria può portare a una perdita di autonomia, per cui non si riesce più a salire le scale, a portare la busta della spesa, a prendere in mano le posate per poter mangiare, fino alle forme più importanti in cui si perde anche la capacità di provvedere da soli all'igiene personale. E purtroppo tutto questo decadimento di funzionalità avviene mentre la mente resta assolutamente lucida. Grazie a tutte le attività realizzate negli ultimi anni, però, il tempo medio di diagnosi è diminuito moltissimo: oggi la stragrande maggioranza dei pazienti che ci contatta ha ottenuto la diagnosi in alcuni mesi, mentre prima parlavamo di diversi anni”.
“L'altra nostra fortuna è che abbiamo tante terapie”, prosegue Marra. “Qualcuna è più efficace, altre meno, qualcuna ha più effetti collaterali, altre meno, però è fondamentale avere diverse armi con cui contrastare la malattia. È chiaro che qualsiasi terapia va personalizzata ed è necessario trovare il giusto compromesso fra dosaggi e intervalli: si tratta infatti di terapie che vanno fatte sostanzialmente a vita, perché ad oggi nessuna di queste è risolutiva. Un'altra cosa che ci rende molto fiduciosi è che c'è una grande attività di ricerca su queste malattie e che si stanno affacciando terapie innovative, ma anche differenti modalità di somministrazione delle terapie già conosciute, che hanno l'obiettivo di ridurre gli effetti collaterali e migliorare la qualità della vita del paziente rendendosi meno invasive o dando la possibilità di curarsi in un modo diverso, ad esempio con una frequenza minore o a casa invece che in ospedale. Siamo rari, sì, ma non siamo sconosciuti. In base alle linee guida internazionali, le terapie di prima linea sono sostanzialmente due: le immunoglobuline e i cortisonici; altre terapie utilizzate sono gli immunodepressivi, come l'anticorpo monoclonale rituximab. In questo momento in Italia i pazienti hanno la fortuna di avere accesso alle terapie a base di immunoglobuline sia endovena che sottocute. Nel nostro Paese abbiamo una grande esperienza con le immunoglobuline per via sottocutanea: siamo stati i primi in Europa, nel 2014, ad averle autorizzate con la legge 648/1996, mentre altri Stati hanno iniziato a utilizzarle con l'indicazione definitiva solo quattro o cinque anni dopo”.
La terapia endovenosa si fa in ospedale, mentre quella sottocutanea si fa a casa, e questo significa poter avere una serie di agevolazioni legate alla logistica e alla tempistica del trattamento: il paziente può farlo nel momento in cui è più libero, o se è in viaggio può farlo nel luogo in cui si trova in quel momento. “Inoltre - aggiunge Marra - lo responsabilizza, lo porta a una migliore autogestione della patologia e consente a chi è limitato nella propria autonomia di non pesare sulla famiglia o sugli amici per recarsi in ospedale. Alcuni anni fa conducemmo un questionario per indagare le preferenze dei pazienti e le motivazioni che portavano alla scelta fra la terapia endovenosa e quella sottocutanea, ed emersero due poli molto solidi ed equivalenti: su poco più di 50 pazienti, il 40% voleva assolutamente fare la terapia sottocutanea a casa, per le motivazioni che abbiamo evidenziato, mentre un altro gruppo, sempre il 40%, voleva andare in ospedale per il trattamento endovenoso. In questo caso le motivazioni erano relative al fatto che la malattia e le difficoltà di deambulazione avevano portato a una sorta di autoisolamento, per cui l'ambiente ospedaliero, nei giorni in cui ci si recava per l'infusione, ritrovando sempre gli stessi compagni di terapia, era diventato nei fatti un luogo di socializzazione. Entrano in gioco anche fattori psicologici: alcuni si sentivano rassicurati dalla presenza dei medici e degli infermieri, altri ancora non volevano portare i dispositivi di infusione (e quindi la malattia) a casa, ma preferivano 'confinarla' in ospedale. È comunque il medico, in accordo con il paziente, che deve decidere quale sia la migliore modalità di somministrazione in ogni singolo, specifico caso. Noi siamo a favore di qualsiasi forma di innovazione: nuove terapie, o anche nuove modalità di somministrazione, che migliorino la qualità della vita. Lottiamo per avere più opportunità possibili, e lottiamo affinché quelle opportunità siano realmente accessibili”.
L’Associazione segnala di aver avuto, durante il periodo del COVID, alcune difficoltà causate dalla carenza di farmaci: “Tanti pazienti lamentavano una riduzione del dosaggio o un aumento dell'intervallo tra una somministrazione e l'altra. Però, tranne qualche caso particolare, che comunque il sistema è stato in grado di prendere in carico e gestire, la maggioranza dei pazienti ha superato il periodo della pandemia senza un reale peggioramento della situazione clinica. Molto più preponderante, invece, è stato l'aspetto psicologico: chi ha avuto un attacco forte, per cui non camminava, non riusciva a prendere in mano gli oggetti, non era in grado di lavarsi da solo, e poi ha recuperato, ha capito quanto è stato importante per lui il trattamento a base di immunoglobuline, e qualsiasi ritardo o incertezza sulla disponibilità del trattamento genera molta ansia. Tuttora capita che i pazienti ci segnalino delle eterogeneità sul territorio italiano per quanto riguarda l'accesso alle terapie autorizzate ed esigibili, ma niente di paragonabile a quel periodo. E se si dovesse ripetere la situazione vissuta durante il COVID? A questa domanda, che spesso i pazienti ci fanno, rispondiamo con il forte impegno di tutti i nostri soci, volontari e caregiver, a sostenere attivamente le associazioni di donatori di sangue e plasma più prossime al loro territorio. La donazione - gratuita, volontaria e anonima - è la migliore risposta a queste preoccupazioni. Ciò che ci fa più piacere è che, ormai, su dieci telefonate che riceviamo, solo due sono dovute a problemi di accesso alla terapia, che tendenzialmente riusciamo a risolvere grazie alla rete di contatti che abbiamo costruito nel corso degli anni in tutte le regioni; le altre otto, invece, sono di pazienti che hanno ricevuto la diagnosi, spesso il giorno stesso. Magari, appena usciti dalla visita nella quale gli è stato comunicato il nome della malattia, ci trovano su internet e ci chiamano. La domanda più ricorrente è: “in che modo questa malattia cambierà la mia vita?” Oggi possiamo rispondere che nella grande maggioranza dei casi la malattia si riesce a tenere sotto controllo: una risposta che fino a pochi anni fa non avremmo potuto dare”.
L’intervista a Massimo Marra è stata pubblicata integralmente all’interno del volume “Storia e valore delle immunoglobuline. L’utilizzo terapeutico nelle immunodeficienze primitive, immunodeficienze secondarie e nella polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica", realizzata da Takeda Italia in media partnership con Osservatorio Malattie Rare e disponibile gratuitamente qui.
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