Intervista a Eduardo Nobile-Orazio, neurologo dell’IRCCS Humanitas, già professore ordinario di Neurologia all’Università degli Studi di Milano
“La polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica (CIDP) è una patologia cronica del sistema nervoso periferico che colpisce tutte le fasce di età, anche se si manifesta prevalentemente in età adulta (l'età media di insorgenza è di 51 anni e la maggior parte dei pazienti ha fra i 30 e i 60 anni); è tendenzialmente più frequente negli uomini”, spiega Eduardo Nobile-Orazio, neurologo dell’IRCCS Humanitas di Rozzano (MI), già professore ordinario di Neurologia all’Università degli Studi di Milano. “È una malattia che ha un andamento di progressivo peggioramento o un andamento a ricadute, nel senso che, anche se si ha una risposta alla terapia, nel momento in cui la si sospende si possono avere delle recidive. È una malattia rara: ha una prevalenza che va da 1 a 10 casi su 100.000 pazienti, variabile da Paese a Paese; una variabilità dovuta probabilmente a differenti criteri diagnostici. È una patologia che oggi si può trattare in maniera efficace, ma che non siamo ancora in grado di guarire”.
I SINTOMI
“I problemi che dà questa malattia sono principalmente perdita di forza, per la compromissione dei nervi sul versante motorio, e disturbi sensitivi quali dolore, formicolio, perdita di sensibilità, perdita di stabilità e di equilibrio (atassia), per la compromissione dei nervi sensitivi”, chiarisce il prof. Nobile Orazio. “Raramente, anzi quasi mai, colpisce il sistema nervoso autonomico, quindi questo è un fattore importante nella diagnosi differenziale. Può colpire anche i nervi cranici, e talvolta può dare diplopia. È una malattia importante: secondo gli studi epidemiologici, più del 50% dei pazienti raggiunge un certo grado di disabilità, come la difficoltà a camminare. La CIDP colpisce soprattutto la guaina mielinica, cioè il rivestimento delle fibre nervose, ed è una patologia autoimmune, scatenata dalla risposta immunitaria contro il nervo: il nervo viene danneggiato, ma se si blocca la risposta infiammatoria, il nervo recupera la mielina e si rigenera, anche se con l'andare del tempo il danno della mielina può portare a un danno secondario dell'assone e, perdendosi la fibra nervosa, i tempi di recupero diventano più lunghi”.
“Sappiamo che ci sono anche delle forme più rare, meno del 20%, che non hanno un interessamento sensitivo e motorio dei quattro arti e talvolta dei nervi cranici, ma possono dare un interessamento solo motorio, oppure solo sensitivo, oppure solo delle parti distali dei nervi, oppure un interessamento asimmetrico che interessa determinati nervi. I meccanismi che spiegano le cause delle diverse presentazioni cliniche non sono ancora noti, anche se immaginiamo che ci possano essere dei meccanismi patogenetici diversi, perché non tutte queste forme rispondono in modo analogo alla terapia: ci sono alcune forme che rispondono molto bene alla terapia con steroidi e altre che invece rispondono meglio alla terapia con immunoglobuline”.
LA DIAGNOSI
“La diagnosi è fondamentalmente clinica ed elettrofisiologica: il paziente affetto da CIDP ha una polineuropatia con disturbi motori, sensitivi, di equilibrio, stanchezza, impaccio nell'utilizzo delle mani e occasionalmente diplopia”, prosegue Nobile Orazio. “L'altro aspetto tipico di questa malattia è l'andamento a ricadute. Inoltre, a differenza di molte neuropatie che hanno un andamento progressivo più lento, questa può peggiorare nel giro di settimane o pochi mesi. La diagnosi avviene sulla base clinica e poi viene rinforzata dall'elettromiografia, che evidenzia una ridotta velocità di conduzione dei nervi: c'è quindi un danno che ha delle caratteristiche di demielinizzazione, che interessa la guaina mielinica e non l'assone. Poi ci sono altri esami che possono essere fatti se rimane il dubbio diagnostico, come la puntura lombare per l'esame del liquor. Se l'elettromiografia non è conclusiva, gli strumenti principali per fare la diagnosi sono l'ecografia dei nervi, che ce li fa vedere ingrossati, o una risonanza. Un tempo la diagnosi differenziale era con le forme genetiche, ma oggi queste si possono escludere con dei semplici esami del sangue; anche la storia naturale è diversa, perché le forme genetiche sono molto più lente e hanno delle caratteristiche morfologiche abbastanza tipiche, come la presenza di piedi cavi. Infine, nella diagnosi differenziale possono rientrare altre forme rare di neuropatia, quali quelle legate a gammopatie monoclonali, alle sindromi POEMS o all'amiloidosi, ma in questi casi ci sono altri elementi che aiutano nella diagnosi. Non è infrequente che i pazienti che hanno queste malattie rare vengano inizialmente diagnosticati come CIDP e avviati alla terapia; ma se questa non funziona, bisogna pensare che la diagnosi possa non essere corretta”.
LE TERAPIE
“Fondamentalmente sono tre le terapie che vengono usate e che si sono dimostrate efficaci nella CIDP: la terapia con immunoglobuline, che viene fatta principalmente come terapia d'attacco in vena e permette di interferire col sistema immunitario; la terapia con cortisone, che può essere data per via endovenosa (meglio tollerata) o per via orale; e la plasmaferesi”, spiega il prof. Nobile Orazio. “La percentuale di risposta alle immunoglobuline è fra il 70 e l'80%, quella al cortisone intorno al 50% e quella alla plasmaferesi del 50-60%. Il meccanismo preciso della terapia con immunoglobuline non è chiaro, ma si pensa che se si carica l'organismo di immunoglobuline, il nostro organismo le riconosce come in eccesso, le elimina più rapidamente e, così facendo, elimina anche gli anticorpi che sono responsabili della malattia. Infatti adesso ci sono delle nuove terapie mirate che agiscono bloccando il meccanismo di riciclo delle immunoglobuline e che sembrano essere efficaci, anche se non ci sono ancora degli studi controllati. Le immunoglobuline, fisiologicamente, vengono internalizzate dalle cellule del sangue e poi a un certo punto la loro distruzione viene bloccata perché vengono rimesse in circolo: queste nuove terapie, invece, impediscono il fatto che le immunoglobuline siano rimesse in circolo, e portano quindi all'eliminazione degli anticorpi. Le immunoglobuline garantiscono dei buoni risultati, ma funzionano solo fintanto che si fa la terapia, perché non bloccano il meccanismo immunopatogenetico alla base della malattia”.
“Negli ultimi anni una buona prospettiva terapeutica è stata quella di utilizzare le immunoglobuline sottocute, che vengono autoiniettate dai pazienti al proprio domicilio, 2-3 volte alla settimana, al contrario della terapia con immunoglobuline in vena, che deve essere fatta in ospedale. È sempre una terapia abbastanza importante come dosaggio, con una media mensile di 70-80 grammi di immunoglobuline sottocute, ma è più comoda per il paziente che non deve venire in ospedale, e anche più vantaggiosa perché i pazienti non occupano posti letto negli ospedali. Recentemente sono state approvate anche le cosiddette immunoglobuline facilitate, perché hanno appunto un facilitatore, la ialuronidasi, che permette alle immunoglobuline di diffondersi meglio nel tessuto sottocutaneo, permettendo di somministrare delle dosi maggiori: il paziente, quindi, può diradare la frequenza delle infusioni. Come tutte le immunoglobuline, sono terapie che funzionano e vengono tollerate bene, però anche in questo caso non guariscono la malattia, per cui sono efficaci fintanto che si fa la terapia”.
“Una terapia che ha una maggiore efficacia dal punto di vista patogenetico, ma non dal punto di vista clinico, è quella con il cortisone, perché è un immunosoppressore e agisce un po' di più sul sistema immunologico”, prosegue Nobile Orazio. “Il problema è che ci sono degli effetti collaterali, e dato che i pazienti tendono ad essere giovani (40-50 anni), possono sviluppare questi effetti collaterali nel corso degli anni, trattandosi di una malattia la cui storia naturale è caratterizzata da ricadute o da un andamento cronico con progressivo peggioramento. Inoltre, ci sono stati vari tentativi con dei farmaci immunosoppressori, che negli studi in aperto, non controllati, hanno mostrato la loro efficacia, ma nel momento in cui sono stati condotti degli studi controllati, non hanno dimostrato un'efficacia maggiore rispetto al placebo. Ultimamente c'è stata una particolare attenzione sul farmaco rituximab, un anticorpo monoclonale che agisce contro le cellule che producono gli anticorpi. Aveva dato delle buone risposte nei pazienti che non rispondono alla terapia, con una capacità di risposta del 70-80%, ma quando abbiamo fatto uno studio controllato verso placebo non si è dimostrato significativamente più efficace. Quindi c'è l'idea che siano efficaci, però al momento non abbiamo la prova che funzionino quando li confrontiamo col placebo”.
“La terza opzione terapeutica è la plasmaferesi, uno scambio plasmatico simile alla dialisi: si rimuove il sangue, si filtra, si separano nelle cellule i globuli rossi, si toglie il plasma dove ci sono gli anticorpi e poi il sangue viene reinfuso nel paziente con l'aggiunta di una soluzione fisiologica. Si tratta di una terapia che ha una buona risposta ma è un po' invasiva, perché va rifatta spesso ed è un processo lungo, che viene fatto solitamente con vene abbastanza importanti. Un tempo si utilizzava maggiormente; oggi, invece, viene usata solo nei pazienti che hanno un andamento grave e che non rispondono alle terapie standard con immunoglobuline o cortisone. È difficile considerarla come una terapia cronica, perché non sempre è ben tollerata dai pazienti; inoltre, non tutti i centri sono dotati dell'apparecchiatura necessaria”.
IL CENTRO HUMANITAS
“In Italia ci sono più di trenta centri che seguono la CIDP, e nel nostro centro clinico IRCCS Humanitas di Rozzano abbiamo più di ottanta pazienti”, racconta Nobile Orazio. “Il centro si è fatto promotore di un database in funzione dal 2015, in cui raccogliamo i dati di tanti centri italiani. Attualmente in questo database, molto ricco e articolato, ci sono circa 800 pazienti da tutta Italia, con una serie di caratteristiche: i pazienti attivi che sono seguiti, quando è stata fatta la diagnosi, quali sono i sintomi principali, com'è l'evoluzione, i risultati dell'elettromiografia e la risposta alla terapia. Il database ci ha permesso di raccogliere molti dati, infatti abbiamo pubblicato più di dodici lavori che li presentano: al momento è il database più ampio al mondo. I pazienti non li ricoveriamo quasi mai: li seguiamo in day hospital, e poi ritornano solo per fare la terapia. Molti li trattiamo con immunoglobuline in vena o cortisone, e ultimamente stiamo cercando il più possibile di modificare la terapia optando per le immunoglobuline sottocute, in modo che i pazienti possano fare questa terapia a domicilio”.
LA QUALITÀ DI VITA DEI PAZIENTI
“La qualità di vita dipende dalla gravità della forma di CIDP: ci sono pazienti che rispondono bene e riescono a tenere sotto controllo la disabilità, però il problema è che diventano dipendenti dalla terapia”, chiarisce il prof. Nobile Orazio. “Ci sono dei pazienti che arrivano in carrozzina e poi, grazie alle terapie, riescono a farne a meno. In generale sono pazienti che riescono a camminare e a fare la loro vita: hanno una disabilità moderata, magari solo un po' di impaccio nel fare le cose. Il recupero, però, non sempre è completo, perché un po' di danno si crea comunque, e si mantiene. Dipende anche dalla durata media della malattia, che nella nostra popolazione è di 5 anni dal momento dell'inclusione dei pazienti nel database, ma ci sono anche pazienti con una durata di oltre 20 anni. Il grado medio di disabilità è di 2: significa che i pazienti hanno degli impacci agli arti superiori e inferiori, ma che comunque sono in grado di camminare, a volte con l'ausilio di un bastone; hanno qualche difficoltà nell'uso delle mani, ma riescono a fare le cose. I pazienti che hanno una disabilità di grado 3 sono molti meno. Ovviamente, molto dipende dalla risposta alla terapia, che solitamente è buona: negli studi che abbiamo fatto sulla nostra popolazione si vede che fra i pazienti trattati l'84% migliora, il 12% rimane stabile e solo il 4% peggiora. È quindi una patologia che riusciamo a trattare con successo”.
Questa intervista è parte integrante del volume “Storia e valore delle immunoglobuline. L’utilizzo terapeutico nelle immunodeficienze primitive, immunodeficienze secondarie e nella polineuropatia demielinizzante infiammatoria cronica", realizzata da Takeda Italia in media partnership con Osservatorio Malattie Rare e disponibile gratuitamente qui.
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