Il dato emerge da un recente studio greco che evidenzia la necessità di monitorare le persone affette dalla patologia anche dal punto di vista della salute scheletrica
Un tempo considerata esclusivamente una “malattia del sangue”, oggi l’emofilia viene riconosciuta come condizione multisistemica, capace di lasciare segni profondi non solo nelle articolazioni, ma anche - in modo subdolo e silente - nelle ossa. Una recente metanalisi pubblicata sulla rivista Haemophilia da un team di ricercatori greci conferma per la prima volta ciò che la pratica clinica aveva da tempo intuito: le persone affette da emofilia hanno un rischio di fratture significativamente superiore rispetto alla popolazione generale.
L’emofilia è una rara malattia di origine genetica, legata al cromosoma X, dovuta alla carenza dei fattori della coagulazione VIII (emofilia di tipo A) e IX (emofilia di tipo B). Questa condizione si manifesta solo nei maschi (le donne possono essere portatrici sane) e comporta una predisposizione a sanguinamenti spontanei o post-traumatici, soprattutto a livello articolare, muscolare o nei tessuti molli. Tali emorragie, specie se ricorrenti, possono condurre a complicanze significative, come l’artropatia emofilica, capace di limitare la funzionalità articolare e la mobilità peggiorando sensibilmente la qualità di vita dei pazienti.
Oltre a queste conseguenze ‘tipiche’, legate agli eventi emorragici, alcuni studi recenti hanno evidenziato che le persone con emofilia possono andare incontro a complicanze scheletriche: fin dall’infanzia, infatti, tendono ad avere una densità minerale ossea (BMD) più bassa rispetto alla popolazione generale. La riduzione di questo parametro, notoriamente associata all’osteoporosi e alla fragilità ossea, può spiegare, almeno in parte, la vulnerabilità scheletrica di questi pazienti.
Sebbene la riduzione della densità ossea sia ben documentata nei pazienti con emofilia, il reale impatto di questa patologia ematologica sul rischio di fratture non era mai stato quantificato sistematicamente. Per colmare questa lacuna teorica, il dottor Divaris e il suo team di ricercatori dell’Università di Salonicco hanno condotto una revisione della letteratura con l’obiettivo di chiarire se l’emofilia fosse effettivamente associata ad un aumento del rischio di fratture e quali ne fossero le cause fisiopatologiche. Gli autori hanno preso in esame tutte le pubblicazioni sull’argomento - studi di coorte retrospettivi, studi trasversali e studi caso-controllo - tra il 2007 e il 2024, condotti su maschi affetti da emofilia A o B. Sono state scartate le indagini che includevano donne o pazienti trattati con farmaci osteoporotici, o quelle prive di gruppo di controllo. La ricerca ha portato alla selezione di quattordici studi per la revisione qualitativa e quattro per la metanalisi quantitativa, per un totale di 13.221 partecipanti.
Dai risultati emerge che, mentre nei gruppi di controllo la prevalenza complessiva delle fratture era stimata intorno allo 0,9%, nei pazienti emofilici era pari al 5,7%. Questo dato indica un rischio di rottura ossea oltre quattro volte superiore rispetto a quanto osservato nella popolazione generale. Nella maggior parte dei casi le fratture riguardano femore, tibia, radio, omero, ulna, perone e clavicola, e possono presentarsi a qualsiasi età, anche in assenza di traumi rilevanti (le cosiddette “fratture a bassa energia”). I ricercatori hanno individuato diversi fattori che potrebbero spiegare questa maggiore vulnerabilità: primo tra tutti l’inattività fisica, che spesso è dovuta al dolore articolare o al timore di innescare emorragie e che riduce la sollecitazione meccanica fondamentale per la formazione e il mantenimento della massa ossea; in secondo luogo la ridotta esposizione solare, responsabile di un deficit di vitamina D capace di aggravare ulteriormente il quadro di fragilità scheletrica; infine, la presenza di infezioni croniche - come HIV e HCV, contratte soprattutto in passato a causa di farmaci emoderivati contaminati - che contribuiscono all’aumento dell’osteoporosi.
Da alcuni studi emerge l’esistenza di un’ultima ipotesi, secondo la quale la carenza dei fattori VIII e IX e della trombina influenzerebbe direttamente il metabolismo osseo. Il deficit di queste proteine plasmatiche, infatti, favorirebbe l’attività osteoclastica, responsabile del riassorbimento osseo, a scapito di quella osteoblastica, associata alla formazione di nuovo tessuto scheletrico. Come si evince da uno dei quattordici studi presi in esame, l’inizio tempestivo di una terapia di profilassi per l’emofilia potrebbe prevenire o ritardare questo processo, influenzando positivamente il metabolismo e l’indice di densità minerale delle ossa.
Nonostante alcune limitazioni, come l’eterogeneità dei dati provenienti dai diversi studi esaminati e la quantità limitata di informazioni disponibili per la metanalisi quantitativa, la revisione sistematica condotta dai ricercatori greci fornisce una prima panoramica sulla correlazione tra l’emofilia e il rischio di fratture ossee, suggerendo la necessità di monitorare i pazienti affetti da questa patologia ematologica anche dal punto di vista della salute scheletrica. Serviranno nuovi studi prospettici, randomizzati e di lunga durata per chiarire meglio il ruolo che la gravità dell’emofilia, la relativa terapia di profilassi o l’uso di trattamenti mirati per la salute ossea – come i farmaci anti-riassorbitivi – possono avere in relazione alla prevenzione delle fratture, ma la ricerca dell’Università di Salonicco rappresenta un primo e significativo passo nella direzione giusta.
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