Il prof. Alberto Zambon: “I pazienti identificati sono passati da meno dell'1% al 7-8%. Aumentare questa percentuale dev'essere la nostra missione”
Padova – Nel 2015, la European Atherosclerosis Society (EAS), nel corso del suo congresso annuale, rendeva noti dei dati preoccupanti: in Italia, come in molti altri Paesi del mondo, meno dell'1% dei pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare (FH) veniva diagnosticato. Quattro anni dopo, la situazione è migliorata: ad affermarlo è Alberto Zambon, professore associato presso il Dipartimento di Medicina dell'Università di Padova.
Professor Zambon, a quali fattori è dovuto questo quadro un po' più roseo?
“Sicuramente in questi anni c'è stata un'importante opera di sensibilizzazione, unita al contributo del Progetto LIPIGEN, un network di esperti presenti in più di 30 Centri su tutto il territorio nazionale, ai quali si può rivolgere chiunque abbia il dubbio di avere un'ipercolesterolemia di origine genetica. Anche grazie a questo esteso programma di individuazione delle persone affette, promosso dalla Società Italiana per lo Studio dell'Aterosclerosi (SISA), oggi la percentuale di pazienti (eterozigoti e omozigoti) che riusciamo a individuare in Italia è di circa il 7-8%: non siamo ancora ai livelli dei Paesi Bassi e della Scandinavia, ma è un dato incoraggiante. Anche gli altri Paesi europei, comunque, stanno progressivamente migliorando la loro capacità di diagnosi”.
Nel 2015 anche i dati di prevalenza erano diversi...
“Esattamente: prima la prevalenza dell'ipercolesterolemia familiare omozigote era stimata in 1 caso su un milione, negli ultimi anni si è scoperto che è più comune, intorno a 1 caso su 200-300.000, il che vuol dire fino a 2.500 casi in Europa e circa 300 in Italia. Anche la forma eterozigote, che già non era considerata affatto rara, si è rivelata essere più diffusa: addirittura 1 caso su 200 persone”.
Parliamo di pazienti che hanno livelli estremamente elevati di colesterolo LDL, anche superiori a 500 mg/dL, e che sono incapaci di rimuoverlo: quali sono le conseguenze?
“In epoca pre-statine (introdotte fra la metà e la fine degli anni '80) i pazienti omozigoti non vivevano oltre i 20-25 anni, e andavano incontro a problemi cardiovascolari precoci e progressivi già nella prima e seconda decade di vita. Con le statine, l'aspettativa di vita è aumentata fino a 35 anni, e oggi, con le nuove terapie, si arriva anche a 50-60 anni e oltre: non ci poniamo limiti, a patto di individuare la malattia il prima possibile”.
Come avviene la diagnosi?
“I pazienti omozigoti ereditano dai genitori, a loro volta affetti dalla forma eterozigote, un gene che riduce marcatamente o addirittura abolisce l'attività del recettore LDL in entrambi gli alleli: ciò provoca livelli di colesterolo superiori a 500 mg/dL nelle persone non trattate. La conferma principale deriva quindi dall'indagine genetica, che se la malattia viene confermata, dovrebbe coinvolgere anche i genitori, i fratelli, gli zii e i nonni del bambino, in quello che viene chiamato screening a cascata. La malattia è presente fin dalla nascita e si può manifestare clinicamente con segni caratteristici quali gli xantomi (accumuli di colesterolo sulla cute o sui tendini, in particolare sul tendine d'Achille) o quali l'arco corneale, conosciuto anche come arcus senilis, un anello bianco o grigio che circonda in maniera più o meno completa il margine esterno dell'iride, e che come dice il nome è abbastanza comune negli anziani senza rivestire alcun significato clinico, ma che nei soggetti sotto i 50 anni e in particolare nei bambini deve far pensare all'ipercolesterolemia. Tuttavia, non sempre questi segni sono presenti: i livelli elevati di colesterolo LDL possono essere ignorati, e molti bambini arrivano in età scolare senza aver mai fatto le analisi del colesterolo. In questi casi, la malattia cardiovascolare progredisce silenziosamente, provocando dei problemi valvolari cardiaci, in particolare aortici, ed arteriosi che potrebbero essere rivelati solo da un'ecografia o da una coronaroTAC. Una coppia con ipercolesterolemia familiare eterozigote, ad ogni modo, dovrebbe essere a conoscenza dei potenziali rischi dovuti alla trasmissione dei geni 'difettosi' alla prole, e quindi indirizzare immediatamente i propri figli verso un'indagine genetica, ma su questo tema è importante anche la formazione dei medici di medicina generale e dei pediatri”.
Una volta identificata la patologia, quali armi abbiamo a disposizione?
“Nei bambini più piccoli, anche a 3-4 anni, si possono somministrare le statine e l'ezetimibe, poi a partire dai 5 anni (in casi particolarmente gravi anche a 2-3 anni di età), ma comunque non più tardi degli 8, è possibile iniziare l'aferesi delle lipoproteine: si tratta di una metodica extracorporea simile alla dialisi che consiste nel filtrare il sangue per rimuovere il colesterolo. Può ridurre i livelli di colesterolo LDL del 55-70% al termine di ogni procedura rispetto ai valori pre-trattamento, ma deve essere ripetuta una volta ogni una/due settimane nella maggior parte dei casi, per tutta la vita; è una procedura invasiva, specialmente nei bambini, per il problema di dover trovare e mantenere accessi venosi adeguati, e tra gli effetti collaterali si osservano talvolta ipotensione, nausea e alterazioni del calcio nel sangue, fenomeni transitori ma che vanno monitorati e possono rendere problematica la prosecuzione della LDL aferesi nel medio-lungo termine. Ci sono poi i nuovi approcci terapeutici: gli inibitori della proteina PCSK9 possono ridurre ulteriormente il colesterolo di un 25-30%, in aggiunta all'aferesi e alla terapia con statine ed ezetimibe. Tra gli anticorpi monoclonali inibitori di PCSK9, l'unico approvato in Europa e in Italia per l'utilizzo nei soggetti con ipercolesterolemia familiare omozigote è l'evolocumab, che a tutt'oggi è indicato solo per i pazienti con più di 12 anni. Un potenziale limite al suo utilizzo è rappresentato dal fatto che è efficace solo in presenza di un minimo di attività residua del recettore LDL; nei soggetti in cui questa attività risulta abolita o inferiore al 2%, l'efficacia di evolocumab è molto limitata o quasi nulla”.
Come si risolvono queste difficoltà?
“L'obiettivo di colesterolo LDL suggerito per gli omozigoti dovrebbe essere inferiore a 135 mg/dL per i pazienti pediatrici, a 100 mg/dL per gli adulti senza malattia cardiovascolare e a 70 mg/dL in presenza di malattia cardiovascolare: sono livelli molto impegnativi da raggiungere in questi pazienti. Per ottenere questi risultati, dal 2013 possiamo contare su un nuovo farmaco, la lomitapide, che ha rappresentato un cambiamento significativo dal punto di vista terapeutico. Questa molecola, infatti, agisce come inibitore della proteina MTP, che si trova nel fegato e nell'intestino ed è essenziale per la produzione delle lipoproteine: l'inibizione di MTP è in grado di ridurre il colesterolo LDL del 55-60% in tutti i pazienti, a prescindere dal tipo di mutazione e dall'attività residua del recettore, inclusi quindi anche i pazienti del tutto privi di attività recettoriale. Inoltre, mentre gli anti-PCSK9 si iniettano sottocute due volte al mese, la lomitapide è un farmaco assunto per via orale (una compressa al giorno): questo rappresenta un grande vantaggio per i pazienti, che ovviamente preferiscono questa modalità di assunzione. Gli eventi avversi sono di tipo gastrointestinale, come meteorismo, diarrea e steatosi epatica (il cosiddetto fegato grasso), e per limitarli è fondamentale che lo specialista adegui con cura il dosaggio del farmaco. L'Italia, per il suo uso esteso di questo farmaco, è uno dei Paesi in Europa con più esperienza riguardo alla lomitapide. Purtroppo, ad oggi, possiamo utilizzarla solo negli adulti (dai 18 anni in su), ma è in corso uno studio che ne valuterà l'efficacia anche nei bambini omozigoti dai 5 anni in su: questo trial coinvolgerà anche l'Italia, con i suoi Centri di alta specialità già in fase di arruolamento dei pazienti”.
Il messaggio è chiaro: le opzioni terapeutiche ci sono, ma occorre migliorare la diagnosi, che dev'essere quanto più precoce.
“I pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare omozigote sono in assoluto quelli che ottengono il maggior beneficio dalla terapia ipocolesterolemizzante, in termini di mortalità e morbilità: il trattamento precoce salva loro la vita, letteralmente. Secondo uno studio dell'associazione inglese Heart UK, un trattamento con statine ad alta intensità potrebbe prevenire 101 decessi dovuti a eventi cardiovascolari su 1.000 pazienti con ipercolesterolemia familiare dai 30 agli 85 anni. Inoltre, se tutti i familiari affetti fossero identificati con lo screening a cascata e trattati in modo ottimale per un periodo di 55 anni, il Regno Unito potrebbe risparmiare 378,7 milioni di sterline, ovvero 6,9 milioni all'anno. La stima è stata fatta nel 2012, quando la prevalenza della malattia, come dicevamo, era ritenuta inferiore, e soprattutto quando ancora la lomitapide non era stata autorizzata in Europa: se già allora il risparmio ipotizzato per i servizi sanitari nazionali era enorme, oggi che possiamo disporre di terapie così efficaci sarebbe ancora maggiore.
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