Insieme ai farmaci di nuova generazione può garantire ai pazienti, anche affetti dalla forma omozigote, una vita normale

L’Ipercolesterolemia Familiare (FH) è una malattia autosomica dominante a penetranza completa, causata da mutazioni nel gene che codifica per il recettore delle LDL (LDLr) che provocano un innalzamento della concentrazione delle LDL nei vasi sanguigni e nei tendini. La forma eterozigote ha una prevalenza di 1:500 mentre quella omozigote è molto più rara (1:1.000.000) ma ha un esordio precoce (entro i primi due anni di vita).

Lo studio del profilo lipidico e l’anamnesi familiare sono i primi strumenti di diagnosi, che in alcuni casi devono essere associati ai test genetici, ricordando che nei soggetti colpiti da FH il rischio di patologie cardiovascolari è altissimo. In aggiunta, i pazienti omozigoti sono resistenti alle terapie con statine e necessitano del trattamento con plasmaferesi o LDL aferesi.

La LDL aferesi è una tecnica di depurazione del sangue che ha il vantaggio di rallentare la progressione dell’aterosclerosi e stabilizzare la formazione della placca, contribuendo ad abbassare il tasso di manifestazioni cardiovascolari nel paziente affetto da FH e riducendo anche il livello di marcatori d’infiammazione, quali la Proteina C Reattiva (CRP).
L’equazione che lega gli alti livelli di colesterolo, l’infiammazione e la formazione di placche aterosclerotiche ha trovato risposta in relazione all’insorgenza di patologie cardiovascolari, focalizzando l’attenzione sulle cascate di attivazione di molecole coinvolte nella genesi dello stimolo infiammatorio, come le citochine e le interleuchine.

Recentemente, su PlosOne è stato pubblicato uno studio che per la prima volta ha indagato il legame che unisce alcune molecole, tra cui PTX3 (appartenente alla famiglia delle pentraxine e coinvolta nei processi infiammatori che portano alla formazione delle placche), al metodo della LDL aferesi nel trattamento dell’ipecolesterolemia familiare.

Lo studio italiano, frutto della collaborazione tra i ricercatori degli ospedali di Trieste, Verona e Reggio Emilia, ha evidenziato un aumento dei livelli di PTX3  nei 19 pazienti affetti da FH rispetto al gruppo di controllo; in ognuno dei soggetti con FH il trattamento con statine non ha prodotto benefici e ogni paziente ha avuto problemi di natura cardiocircolatoria.

Insieme alla riduzione di LDL, HDL e trigliceridi, il trattamento con LDL aferesi ha ridotto in maniera significativa anche il livello di CRP, fibrinogeno e PTX3, sebbene questi aspetti non siano risultati tra loro direttamente correlati. In particolare, i valori di PTX3 già dopo una singola seduta di LDL aferesi sono scesi del 20%, per poi riportarsi al livello pre-trattamento nell’arco di 14 giorni. Nel caso di TNF, invece, non è stata rilevata alcuna differenza nei valori pre- e post-LDL aferesi.

PTX3 risulta particolarmente elevata in pazienti con patologie cardiovascolari e infarto miocardico acuto e l’abbassamento dei suoi livelli nei pazienti a rischio si accompagna alla diminuzione del tasso di patologie cardiovascolari. Secondo gli autori, sebbene rimanga ancora da chiarire se la riduzione di PTX3 nei pazienti con FH da lungo sottoposti a LDL aferesi sia un effetto diretto o indiretto del trattamento, il ricorso a questa pratica in pazienti con FH e problemi cardiovascolari si è rivelato di indubbio vantaggio.

Ricordiamo inoltre che da poco più di un anno in Europa è stato approvato un nuovo farmaco destinato ai pazienti affetti dalla forma iperolesterolemica omozigote. Si tratta di lomitapide, un inibitore della proteina microsomiale di trasporto dei trigliceridi, farmaco che ha dimostrato grandi risultati. Unitamente all’aferesi e alla terapia tradizionale questa molecola permette infatti ai pazienti di avere un tasso di colesterolo nel sangue pari a quello di una persona sana.

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