Il dr. Chiurazzi (Napoli): “Si interviene se le piastrine scendono sotto quota 20.000, ma nell'anziano la conta minima dovrebbe essere 30-40.000, e 50.000 per gli sportivi”
Napoli – Una migliore conoscenza delle linee guida internazionali, per poi essere in grado di personalizzare la terapia: per il dr. Federico Chiurazzi, responsabile dell'ambulatorio di piastrinopenie dell'Ematologia del Policlinico Federico II di Napoli, è questa la parola d'ordine per il trattamento della piastrinopenia immune. Nel suo Centro, ogni anno, sono in cura 300-400 pazienti adulti con questa patologia, fra acuti e cronici.
“Molto spesso, i maggiori danni al paziente vengono da una terapia impropria e da un eccessivo utilizzo degli steroidi”, spiega. “All'interno delle linee guida esistono delle eccezioni (anziani, sportivi, soggetti in terapia anticoagulante, donne in gravidanza) per cui è possibile derogare a tali indicazioni; da qui l'importanza di essere seguiti da uno specialista accreditato”. Un paziente, infatti, ha una diagnosi di piastrinopenia immune quando la conta delle sue piastrine cala sotto il livello di guardia delle 100.000 per microlitro di sangue in assenza di anomalie nell'emoglobina e nei globuli bianchi, ma la realtà è più complessa.
Molto spesso il paziente non ha bisogno di alcuna terapia, ma di esclusivo monitoraggio. I medici intervengono (con i farmaci o con la chirurgia) solo se la piastrinopenia è grave, ovvero sotto le 20.000 piastrine, ma nei soggetti che assumono terapie anticoagulanti occorre evitare che scendano sotto quota 50.000. Ci sono poi situazioni particolari, come ad esempio l'anziano, che ha un rischio emorragico più elevato, in cui la conta minima dovrebbe essere 30-40.000, così come gli sportivi, soggetti a traumi, per i quali è consigliabile non scendere sotto le 50.000 piastrine.
La piastrinopenia immune è una malattia che fortunatamente ha una mortalità bassissima, ma che non dev'essere trascurata: infatti può provocare non solo ematomi ed emorragie cutanee, ma anche emorragie interne o cerebrali, gravissime, che mettono a rischio la vita del paziente. Nel bambino si presenta in forma acuta, ma spesso si risolve spontaneamente, mentre nell'adulto è spesso cronica e a volte refrattaria.
La prima linea di trattamento si basa sul cortisone per via orale o endovena, o sulle immunoglobuline nelle forme particolarmente severe: solo il 30-40% dei pazienti, però, ha una risposta senza successive ricadute. La seconda linea prevede la splenectomia (l'asportazione della milza) o il trattamento con gli agonisti della trombopoietina, come eltrombopag e romiplostim: questi farmaci, fino allo scorso ottobre, potevano essere somministrati solo a pazienti che erano già stati sottoposti a splenectomia, e comunque a distanza di un anno dalla diagnosi: oggi la prima restrizione è stata eliminata, e la seconda è stata ridotta a sei mesi, aumentando così il numero dei pazienti che possono beneficiarne.
“In genere somministriamo gli agonisti della tromboietina per un anno – un anno e mezzo, poi spesso il paziente decide di sospenderli, perché deve seguire una dieta molto rigida ed evitare latte e derivati per alcune ore prima e dopo l'assunzione. Negli studi clinici a lungo termine con questi farmaci, il 30-40% dei pazienti abbandona la terapia per scelta propria, intolleranza o altro”, prosegue Chiurazzi. “Ben il 70-80% di loro ha una risposta positiva al trattamento, ma molti, quando lo interrompono, hanno una ricaduta. A quel punto, l'unica alternativa è la splenectomia, ma neppure questo intervento è sempre risolutivo: se il 60% va incontro a una remissione completa, il 20% è refrattario e l'altro 20% non mantiene i valori nella norma”.
Un aspetto particolare riguarda le donne in gravidanza. I primi 3 mesi di gestazione sono fondamentali per lo sviluppo fetale e necessitano di rigide restrizioni all'utilizzo dei farmaci; per tale motivo, in una donna in età fertile è consigliabile la splenectomia, che a tutt'oggi rappresenta l'unico presidio terapeutico in grado di assicurare, con una elevata percentuale di successo, la sospensione duratura da regimi terapeutici. “In gravidanza è necessaria una stretta interazione fra ginecologo ed ematologo”, sottolinea Chiurazzi. “La donna dovrebbe essere seguita dall'inizio alla fine della gravidanza da un unico team di esperti in grado di accompagnarla in tutta serenità fino all'espletamento del parto”.
La qualità di vita, infine, dipende dai livelli delle piastrine ma anche dall'approccio personale: “Bisogna far capire ai pazienti – conclude il dr. Chiurazzi – che la piastrinopenia cronica li accompagnerà, nella maggior parte dei casi, per tutta la vita, con oscillazioni spesso non significative, ma anche che hanno nell'ematologo un punto di riferimento su cui possono contare”.
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