Il prof. Giuseppe Palumbo (Roma): “Bisognerebbe gettare un ponte culturale tra la figura del pediatra e quella dell’ematologo dell’adulto”
Alcune malattie - non necessariamente rare - hanno un andamento differente a seconda che insorgano in un individuo adulto, in un adolescente o in un bambino; in base alla fascia d’età in cui si manifesta, una data patologia può implicare una presentazione clinica non sempre sovrapponibile, oppure una probabilità di guarigione differente. Oltre a rientrare in questo secondo caso, la trombocitopenia immune costituisce un terreno di studio ideale per l’aspetto, puramente psicologico, relativo all’impatto che può avere una malattia ematologica su una mente giovane.
Contraddistinta da un calo nel livello di piastrine circolanti, la trombocitopenia immune (ITP) si associa ad un aumentato rischio di emorragie, e questo può costituire un grave pericolo per un bambino che non abbia ancora sviluppato la percezione del rischio, o per un adolescente che ritenga di potersi mettere costantemente alla prova senza tener conto delle conseguenze di un tale atteggiamento. Se a ciò si aggiunge che la malattia assume un comportamento clinico diverso in età pediatrica o adulta, è facile comprendere come anche le figure mediche di riferimento debbano imparare a coordinarsi per garantire ai pazienti uno sviluppo armonico del loro cammino terapeutico.
“La trombocitopenia immune ha una probabilità di guarigione completa molto maggiore nella fascia pediatrica, dove raggiunge l’80%, rispetto a quella adulta, dove arriva al 40%”, precisa il prof. Giuseppe Palumbo, docente di Pediatria presso l’Università Tor Vergata, in forza al dipartimento di Onco-Ematologia dell’Ospedale Pediatrico ‘Bambino Gesù’ di Roma. “La ITP è tipica dell’età pediatrica e insorge con più facilità nella fascia compresa tra i 2 e i 6 anni, mentre è più rara ad altre età. Sulla base di ciò, possiamo distinguere due categorie di adolescenti: quelli in cui la malattia ha esordito quando erano bambini e che sono stati pertanto seguiti fin dall’età pediatrica, e quelli (meno frequenti) con esordio in età adolescenziale. In quest’ultima categoria, la malattia presenta maggiori somiglianze con la forma tipica dell’adulto”.
Discrepanze come quelle elencate possono sembrare secondarie rispetto al timore delle complicanze, anche gravi, che una diagnosi di ITP necessariamente comporta, ma evocano comunque una risposta differenziata sia da parte dei pazienti - e dei loro familiari - che dei medici stessi. “Se da un lato è vero che questa malattia ha un impatto molto significativo sulla qualità di vita - aggiunge Palumbo - è anche facile che induca un’autentica ‘psicosi da piastrinopenia’, con genitori e medici che iniziano a ‘inseguire’ il numero delle piastrine, curando più il significato dell’emocromo, mentre occorrerebbe mettere al centro la valutazione del rischio emorragico e della qualità di vita del paziente, il quale, molto spesso, presenta una sintomatologia contrastante rispetto al numero totale di piastrine”. Infatti, un paziente con ITP, pur con un basso conteggio piastrinico, può avere una sintomatologia molto modesta, se non addirittura assente. “Gli adulti - prosegue il prof. Palumbo - hanno una maggiore consapevolezza e possono adottare uno stile di vita adeguato alla malattia, ma per chi passa da un’età infantile, nella quale il controllo delle scelte personali è in parte demandato ai genitori, a un’età adolescenziale, in cui si comincia a scoprire che la malattia riguarda l’affermazione di sé come individuo, vivere la ITP può diventare difficoltoso”.
Per i pazienti che affrontano la trombocitopenia immune nella fascia ‘grigia’ dell’adolescenza sembra non esistere una figura medica specifica, tanto che la loro stessa presa in carico e gestione sono demandate al pediatra o all’ematologo che segue l’adulto, senza che nessuno dei due abbia una reale predisposizione ad affrontare le problematiche del soggetto adolescente. “Questo punto debole della medicina non riguarda solo l’ITP, ma si estende a tante altre patologie”, precisa Palumbo. “Bisognerebbe gettare un ponte culturale tra la figura del pediatra e quella dell’ematologo dell’adulto, e sarebbe necessario che un numero maggiore di clinici specializzati nella gestione della ITP in individui adulti si occupasse anche dei più giovani, mentre più pediatri dovrebbero aprire le porte alla gestione dell’adolescente, nel quale la patologia ha caratteristiche precise e una scarsa probabilità di cronicizzare”.
In questa prospettiva, diventano più chiare le modalità attraverso cui sia possibile armonizzare il passaggio dall’approccio terapeutico per il paziente adolescente a quello per l’adulto. “Tocca ai medici di entrambe le categorie di pazienti provare a disegnare protocolli terapeutici condivisi, che identifichino un terreno comune sul quale favorire una transizione più facile”, spiega ancora Palumbo. “Il problema principale rimane l’identificazione di una categoria di pazienti che tende a sfuggire sia ai pediatri che agli ematologi dell'adulto: solo delineando linee guida specifiche, e trovando un accordo sui criteri diagnostici e terapeutici, sarà possibile intervenire in maniera mirata a favore degli adolescenti nella ‘fascia grigia’”.
Nel frattempo, i medici devono saper guardare alle persone con ITP mettendole nelle condizioni di mantenere una buona qualità di vita. “Logicamente, alcune attività potenzialmente traumatiche vanno commisurate al quadro del singolo individuo - sottolinea Palumbo - ma in generale bisogna mettere nel bilancio quanto sia importante l’attività fisica per il paziente e in che misura, da un punto di vista farmacologico, gli sia possibile farla. Le attività che si possono svolgere dipendono dal tipo di inquadramento e dal grado di compliance familiare: sebbene esistano famiglie che ‘rispondono’ alla ITP in modi tra loro opposti, l’adolescente deve essere reso cosciente della sua malattia se si desidera farne un soggetto responsabile e ligio nei controlli. Educare vuol dire spiegare cosa sia la malattia e far capire cosa costituisca un fattore di rischio, non semplicemente imporre divieti”.
Il genitore, quindi, non deve trasmettere al figlio una sorta di ansia per la salute, e il medico deve ricordare di non essere ‘condizionato’ dalla conta delle piastrine, mettendo esclusivamente al primo posto il monitoraggio clinico della ITP. “Sono proprio i medici ad aver bisogno di un aggiornamento su questa patologia, la quale vive del retaggio di come veniva interpretata anni fa”, conclude Palumbo. “Ciò determina ansia anche per il medico stesso, che può eccedere nel medicalizzare il paziente, in un atteggiamento controproducente”.
Seguici sui Social