Il carcinoma a cellule di Merkel (CCM) è un raro tumore della pelle ricondotto alla famiglia degli APUDomi e definito come 'carcinoma neuroendocrino della cute'. Fu descritto per la prima volta nel 1972. Colpisce un sottogruppo di cellule neuroendocrine cutanee - le cellule di Merkel - dalle quali il nome. Si tratta di una forma tumorale primitiva, contraddistinta dalla comparsa – specialmente a livello della testa e del collo – di lesioni eterogenee di varie dimensioni, che solitamente si manifestano come un nodulo color carne o rosso-bluastro, duro, indolore e lucido. L’infezione da poliomavirus a cellule di Merkel rappresenta uno dei principali fattori di rischio di CCM.
La malattia di Wilson è una patologia ereditaria caratterizzata dalla ridotta eliminazione del rame nella bile da parte del fegato. Tale difetto comporta un accumulo di rame nel fegato e in altri organi quali il sistema nervoso centrale, la cornea (dove si può formare l’anello di Kayser-Fleischer), il rene, le ossa. L'accumulo di rame danneggia consistentemente questi organi ed è responsabile della comparsa di sintomi e segni clinici.
Nei bambini e negli adolescenti la malattia di Wilson si manifesta più frequentemente con una patologia del fegato, mentre nei giovani e negli adulti si può manifestare anche con problemi neurologici. In alcuni casi la malattia di Wilson può esordire con disturbi del comportamento e della sfera psichica che possono simulare una patologia psichiatrica. Il tempestivo riconoscimento della malattia è reso difficoltoso dal fatto che la malattia epatica spesso decorre in modo asintomatico e quando la malattia di Wilson si presenta in modo sintomatico nessuno dei segni clinici di presentazione è esclusivo. La malattia epatica può essere diagnosticata in seguito al riscontro di alterazioni delle transaminasi e/o per un deficit degli indici di sintesi epatica (albumina e fattori della coagulazione). Talora la malattia può presentarsi con una complicanza della cirrosi (ascite, emorragia digestiva), in rari casi come un’epatite fulminante caratterizzata da insufficienza epatica grave associata ad anemia emolitica.
Il danno del sistema nervoso si può esprimere con tremori, incapacità a svolgere attività che richiedono una buona coordinazione tra la vista e le mani, alterazioni del tono muscolare, difficoltà ad articolare le parole, movimenti involontari. Anche i sintomi psichici non hanno specificità assoluta: frequentemente prendono la forma di un comportamento incongruo, irritabilità, depressione, allucinazioni ed idee deliranti.
La malattia di Wilson, una volta diagnosticata, può essere efficacemente controllata attraverso una opportuna terapia farmacologica. Il tipo di terapia dovrà essere stabilito dal centro specialistico in base all’età del paziente, al quadro clinico presente all’esordio, al comportamento clinico-laboratoristico del paziente in corso di terapia. La malattia di Wilson, quando è adeguatamente trattata, ha una prognosi eccellente con una speranza di vita che coincide con quella della popolazione generale. Il trattamento deve però essere proseguito per tutta la vita. Il soggetto affetto da malattia di Wilson, soprattutto se diagnosticato in età pediatrica e in tutti i casi in cui la malattia non ha avuto il tempo di danneggiare l’organismo, può svolgere una vita normale senza alcuna particolare limitazione.
E’ consigliabile che i pazienti con malattia di Wilson siano seguiti presso centri specialistici con elevata competenza nella diagnosi e gestione di questa malattia rara. E’ comunque auspicabile che il medico di famiglia o il pediatra di famiglia, nel caso dei pazienti pediatrici, sia coinvolto, per migliorare l’interazione tra paziente, medico curante e centro specialistico.
Testo a cura del professor Raffaele Iorio, Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali, Sezione di Pediatria, Università di Napoli Federico II.
La Sindrome di Cushing (CS) è una condizione clinica caratterizzata dall'eccesso di ormoni glucocorticoidi nel circolo ematico. Fu descritta nel 1932 dal chirurgo americano Harvey Williams Cushing considerato il padre della neurochirurgia. Il cortisolo è un ormone prodotto normalmente dalle ghiandole surrenali ed è fondamentale per la vita: permette di rispondere alle situazioni di stress, come ad esempio le malattie, e ha effetti su quasi tutti i tessuti dell’organismo. Viene prodotto in picchi, più frequenti al mattino e molto ridotti di notte. Quando l’organismo produce troppo cortisolo, a prescindere da quale ne sia la causa, siamo in presenza della Sindrome di Cushing. La prevalenza di CS endogena è di 1/26.000 e, nell'UE, l'incidenza annuale è di 1/1.400.000-1/400.000, con un picco a 25-40 anni.
CAUSE La sindrome può essere endogena (causata dalla produzione del cortisolo a livello della corteccia surrenale) o esogena (causata dalla conseguenza di assunzione di farmaci). Alcuni pazienti sviluppano la Sindrome di Cushing a causa di tumore delle ghiandole surrenali che produce un eccesso di cortisolo. Altri pazienti sviluppano la Sindrome di Cushing perché producono un eccesso di adrenocorticotropina (ACTH), ormone che stimola le ghiandole surrenali a produrre cortisolo. Solo quando l’ACTH proviene dall’ipofisi la condizione viene definita malattia di Cushing. Tumori secernenti ACTH possono originare anche in altre zone nell’organismo e vengono detti ectopici.
LA CS esogena può essere causata da antinfiammatori steroidei, co-somministrazione di ritonavir in pazienti con HIV o forti dosi di megestrolo. La CS rientra nel quadro clinico di alcune malattie genetiche rare: neoplasia endocrina multipla tipo 1 (MEN 1), complesso di Carney (CNC), sindrome di McCune-Albright (MAS) e Li-Fraumeni (LFS), adenoma ipofisario isolato familiare (FIPA).
MALATTIA DI CUSHING
La Malattia di Chushing è la causa più comune dell’omonima sindrome. Si tratta di una patologia endogena, dovuta all’ipersecrezione ipofisaria cronica di ACTH causata da un adenoma corticotropo ipofisario. Nella malattia di Cushing un tumore ipofisario produce ACTH, che stimola la produzione surrenalica di cortisolo. La malattia di Cushing è di fatto la causa più comune della CS. SINTOMI Segni clinici tipici sono obesità facciale e del tronco, segni di ipercatabolismo (assottigliamento della cute, strie violacee, ecchimosi, formazione di lividi senza traumi evidenti, debolezza muscolare prossimale con amiotrofia, osteoporosi inspiegabile) e, nei bambini, aumento del peso con ridotta velocità di crescita. Altri segni meno specifici sono affaticamento, pressione ematica elevata, intolleranza al glucosio, ipokaliemia, acne, irsutismo, irregolarità mestruale, calo della libido, disfunzione erettile e disturbi neuropsicologici (depressione, irritabilità emotiva, disturbi del sonno, deficit cognitivo, aumentata suscettibilità alle infezioni, urolitiasi). La CS lieve (subclinica od occulta) è più comune di quanto si ritenesse in passato ed è identificata nel corso di indagini per diabete, osteoporosi, ipertensione o disturbi neuropsicologici.
DIAGNOSI
I soli sintomi e segni clinici non sono sufficienti a diagnosticare la CS. Sono infatti necessari dei test di laboratorio che determinino se troppo cortisolo è prodotto spontaneamente, o se il normale sistema di controllo degli ormoni non sta funzionando correttamente. I test più comunemente usati misurano la quantità di cortisolo nella saliva o nelle urine. E’ anche possibile controllare se il cortisolo rimane elevato somministrando desametasone che riproduce l’effetto del cortisolo. Questo viene chiamato test di soppressione al desametasone. Se l’organismo sta correttamente regolando la produzione di cortisolo i livelli diminuiscono, cosa che non accade in chi ha la sindrome di Cushing. Ricordiamo che esistono anche altre condizioni patologiche che possono mimare la CS, chiamati stati di “Pseudo-Cushing”. In questi casi è necessario porre una diagnosi differenziale.
I pazienti con sindrome di Cushing di origine surrenalica hanno bassi livelli di ACTH nel sangue mentre pazienti con sindrome di Cushing da altra causa hanno livelli normali o elevati. E’ possibile diagnosticare un eccesso di ACTH misurandone i livelli nel sangue. Il test migliore per distinguere un tumore secernente ACTH nell’ipofisi da uno situato in un altro zona dell’organismo è una procedura chiamata cateterismo dei seni petrosi inferiori o IPSS. Esso prevede l’inserimento di cateteri nelle vene destra e sinistra della regione inguinale (o del collo) per raggiungere le vene vicino all’ipofisi. Un prelievo di sangue viene effettuato da queste sedi e da una vena periferica (braccio).Durante la procedura viene iniettato un farmaco che aumenta i livelli di ACTH. Confrontando i livelli di ACTH presenti nelle vicinanze della ghiandola ipofisi in risposta al farmaco con quelli presenti in altre parti dell’organismo è possibile fare la diagnosi.
Altri esami vengono usati per la diagnosi sindrome di Cushing sono il test di soppressione al desametasone e test di simulazione con l’ormone rilasciante la corticotropina (CRH). E’ anche possibile visualizzare la presenza di un tumore ipofisario con la risonanza magnetica con mezzo di contrasto, ma l’assenza di un tumore alla RM non esclude necessariamente la malattia di Cushing. TERAPIA In presenza della sindrome di Cushing i trattamenti di prima linea sono rappresentati l’asportazione del tumore, la riduzione dalla sua capacità di produrre ACTH, o l’asportazione delle ghiandole surrenali. Alcuni dei sintomi possono essere trattati con terapie specifiche, per minimizzare i danni.
La rimozione del tumore ipofisario è il modo migliore per trattare la malattia di Cushing. Ciò è raccomandato in coloro che hanno un tumore che non si estende al di fuori dell’area ipofisaria e che sono in buone condizioni per sottoporsi all’ anestesia. La via meno traumatica per effettuare l’intervento è la chirurgia trans-sfenoidale (intervento effettuato passando per naso o il labbro superiore e attraverso il seno sfenoidale per raggiungere il tumore). La rimozione del tumore lascia il resto della ghiandola ipofisaria intatto così che alla fine funzionerà normalmente. La percentuale di successo è del 70- 90% quando l’intervento è eseguito da un chirurgo esperto. La percentuale di successi riflette l’esperienza del chirurgo che esegue l’intervento. Il tumore può tuttavia recidivare nel 15% dei pazienti, probabilmente a causa dell’incompleta rimozione del tumore all’interevento iniziale. Altre opzioni di trattamento includono l’irradiazione dell’intera ghiandola o la radioterapia diretta sul bersaglio (chiamata radiochirurgia), quando il tumore è visibile in RM. Questo può essere usato come trattamento unico oppure nel caso in cui la chirurgia ipofisaria non abbia avuto completo successo. Queste metodiche possono richiedere fino a 10 anni per avere un effetto completo.
Nel frattempo i pazienti devono assumere farmaci per ridurre la produzione surrenalica di cortisolo. Un importante effetto collaterale della radioterapia è che può colpire le altre cellule ipofisarie che producono ormoni differenti. Come conseguenza, fino al 50% dei pazienti ha la necessità di assumere una terapia sostitutiva ormonale entro dieci anni dal trattamento. L’asportazione di entrambe le ghiandole surrenali elimina la capacità dell’organismo di produrre cortisolo. Poiché gli ormoni surrenali sono indispensabili per la vita, i pazienti dovranno assumere un farmaco simile al cortisolo ed all’ ormone aldosterone, che controlla l’equilibrio dei sali minerali e dell’acqua, tutti i giorni per il resto della loro vita.
Esiste anche una terapia framacologica, utilizzata per abbassare i livelli di cortisolo. E’ il caso del pasireotide è un “analogo della somatostatina”, una copia dell’ormone naturale somatostatina, nota per la capacità di bloccare il rilascio di ACTH. I recettori della somatostatina si trovano solitamente in concentrazioni elevate sulle cellule tumorali, compresi i tumori dell’ipofisi che causano la malattia di Cushing. Analogamente alla somatostatina, il pasireotide si lega a tali recettori e blocca la secrezione eccessiva di ACTH. Poiché gli ormoni ACTH stimolano la produzione di cortisolo, una loro riduzione contribuisce a diminuire i livelli di cortisolo nell’organismo, alleviando così i sintomi della malattia Il farmaco è oggi approvato come trattamento di seconda linea, cioè per quei pazienti per i quali l’intervento chirurgico non sia possibile o non sia risultato risolutivo.
Il tumore al colon-retto è il terzo tipo di neoplasia più diffusa in Italia, con circa 35 mila nuovi casi l’anno. La malattia è abbastanza rara prima dei 40 anni e si manifesta più frequentemente dopo i 60 anni. In genere si sviluppa a partire da polipi, ovvero delle piccole escrescenze sulla mucosa intestinale che si formano a causa di una proliferazione cellulare anomala. In molti casi i polipi sono benigni, soprattutto se di piccole dimensioni, e la percentuale che si trasformino in tumore è piuttosto bassa (inferiore al 10%). La trasformazione in senso maligno di un polipo, invece, porta alla proliferazione tumorale della mucosa intestinale e alla possibile diffusione del tumore anche verso il fegato, l’organo più strettamente collegato al distretto colorettale. Le recenti scoperte scientifiche hanno evidenziato un’eterogeneità genetica alla base del tumore al colon-retto, che può determinare una progressione e una risposta alle terapie diversa da un paziente all’altro.
BASI GENETICHE Seppure sia una neoplasia molto diffusa nella popolazione, alcune varianti genetiche del tumore al colon-retto sono ben più rare e necessitano di percorsi terapeutici diversi dai chemioterapici di prima linea generalmente impiegati. Un difetto nel recettore del fattore di crescita epidermico (EGFR) rende il tumore insensibile ai chemioterapici classici, una difficoltà oggi raggirata grazie all’impiego di anticorpi monoclonali selettivi per questo bersaglio. Tumori al colon-retto più aggressivi e di rapida progressione sono frequentemente associati a una mutazione nel gene KRAS, che codifica per una proteina attivata dal EGFR. Screening genetici sulla popolazione di pazienti con questo tipo di tumore in fase metastatica hanno individuato che la mutazione nel gene KRAS è comune al 40% dei casi e determina una mancata risposta alle terapie. Studi più recenti hanno messo in luce che il gene KRAS può ‘rompersi’ in qualsiasi momento: questo si verifica in pazienti che manifestano la cosiddetta resistenza acquisita alle terapie, ovvero che smettono di rispondere improvvisamente ai trattamenti fino a quel momento risultati efficaci. Oltre al gene KRAS è stato identificato un altro protoncogene chiamato HER-2, anch’esso coinvolto in un’evoluzione più aggressiva della malattia e una resistenza alla chemioterapia classica. Individuare le basi molecolari che caratterizzano il tumore è importante per definire un piano terapeutico ‘personalizzato’: la presenza di alcune mutazioni genetiche, infatti, è predittiva per l’efficacia di una terapia e consente di scegliere i farmaci da cui il paziente potrà trarre maggiore beneficio.
SINTOMI In genere il tumore del colon-retto non dà sintomi specifici e un terzo dei pazienti che arriva alla diagnosi ha una neoplasia in stadio avanzato e già diffusa al fegato. Esistono dei segnali, per lo più aspecifici, che possono sollevare il sospetto di tumore: disturbi nell’evacuazione (stitichezza alternata a diarrea), stanchezza, mancanza di appetito, perdita di peso repentina e anemia. La presenza di sangue nelle feci può insospettire e richiede degli accertamenti, tuttavia solo nel 5% dei casi è imputabile a un polipo maligno. DIAGNOSI La ricerca di una massa tumorale nella regione addominale è il primo passo dell’iter diagnostico in caso di sospetto. La colonscopia è l’esame più specifico per individuare polipi e lesioni nel tratto intestinale ed è suggerita come screening per la prevenzione di questo tumore a partire dai 50 anni di età. La diagnosi è poi confermata da biopsia, ovvero il prelievo di un campione di tessuto dall’escrescenza anomala individuata durante la colonscopia, e ulteriori test diagnostici (clisma opaco, ecografia transrettale, TAC addominale). Alla diagnosi clinica si aggiunge oggi il test genetico, che completa il profilo del tumore al colon-retto diagnosticato.
TERAPIA La scelta dei farmaci che possono risultare più efficaci in un paziente dipende dall’analisi genetica. L’asportazione della massa tumorale rimane comunque il trattamento di elezione. In molti casi di tumore in stadio avanzato, si possono eseguire dei cicli di chemioterapia prima dell’intervento chirurgico: questo approccio, chiamato terapia neoadiuvante, mira a diminuire le dimensioni del tumore con i trattamenti farmacologici in modo da semplificarne l’asportazione chirurgica e rendere possibile l’intervento anche in casi considerati altrimenti inoperabili. La complessità del tumore del colon-retto richiede un approccio multidisciplinare e, in genere, il piano terapeutico è complesso e si avvale di tutti i trattamenti oggi a disposizione, affiancando a chemioterapia, radioterapia e chirurgia anche farmaci sperimentali di nuova generazione. Gli anticorpi monoclonali, come il cetuximab e il panitumumab, si sono dimostrati efficaci nel trattamento di tumore con mutazione di EGFR e sono oggi adottati nel trattamento della maggior parte dei casi di tumore del colon-retto. La presenza di mutazioni nel gene KRAS induce una resistenza alla terapia con anticorpi monoclonali: in questa sottopopolazione di pazienti regorafenib, valutato nello studio di fase III CORRECT, ha dimostrato di essere efficace, in combinazione con la migliore terapia di supporto (BSC). Il farmaco, un inibitore multi-chinasico, ha dimostrato la sua efficacia anche in tumori metastatici del colon-retto con gene KRAS non mutato (KRAS wild-type) ed è una valida opzione terapeutica per i più rari tumori gastrointestinali stromali (GIST) che non rispondono alle terapie standard.
Il carcinoma midollare della tiroide (CMT) è uno dei tumori tiroidei meno diffusi, di cui rappresenta il 5-10% dei casi. In Italia questa forma tumorale colpisce circa 200 individui ogni anno e si manifesta frequentemente in età giovanile. Origina dalle cellule C della tiroide che secernono calcitonina, un ormone coinvolto nel mantenimento delle concentrazioni di calcio nel sangue entro i valori fisiologici. In caso di proliferazione tumorale la calcitonina viene prodotta in eccesso, alterando questo equilibrio. Dal punto di vista epidemiologico esistono due forme di carcinoma midollare della tiroide: la forma sporadica (75%) e la forma familiare (25%) con differenti risvolti diagnostico terapeutici.
Il tumore della tiroide, una ghiandola a forma di farfalla posta nella regione anteriore del collo, è poco diffuso: si registra tuttavia che il numero dei casi sia raddoppiato negli ultimi 20 anni. E’ il sesto tipo di tumore per frequenza nelle donne, con un incidenza alla diagnosi tre volte maggiore per le donne rispetto agli uomini. Ogni anno sono diagnosticati più di 160.000 nuovi casi di tumore della tiroide e circa 25.000 persone muoiono, ogni anno, nel mondo per questa patologia. Il 90% delle forme tumorali tiroidee è rappresentato dall’adenocarcinoma papillare e dall’adenocarcinoma follicolare. Entrambe le forme tumorali originano dalle cellule che secernono gli ormoni tiroidei e si parla genericamente di tumore differenziato della tiroide. La tiroide produce due ormoni, la tiroxina e la triidotironina, che svolgono un ruolo importante nel corretto svolgimento della maggior parte delle attività metaboliche e dei processi di crescita. La crescita anomala di alcune cellule che compongono la tiroide può determinare la formazione di un nodulo e comportare un’alterata produzione ormonale, con conseguenze sull’intero organismo. La maggior parte dei tumori tiroidei differenziati sono trattabili, ma i tumori refrattari al radio-iodio, localmente avanzati o metastatici, sono più difficili da trattare e sono associati a tassi di sopravvivenza più bassi.
SINTOMI Tutte le malattie che colpiscono la tiroide sono caratterizzate da sintomi aspecifici perciò possono rimanere silenziose per anni. Nel caso del tumore differenziato, è la presenza di un nodulo a far nascere il sospetto da parte del medico. Le forme tumorali tiroidee sono associate anche a segnali come un gonfiore nella parte anteriore del collo o dei linfonodi, mal di gola persistente, raucedine o cambiamento improvviso della voce, difficoltà di deglutizione e respiratorie. E’ tuttavia difficile riconoscere la patologia precocemente e, in genere, controlli regolari che includano la palpazione del collo e il dosaggio degli ormoni tiroidei sono importanti per individuare un malfunzionamento della ghiandola.
DIAGNOSI L’individuazione di un nodulo nella regione anteriore del collo può essere un segnale significativo per eseguire ulteriori accertamenti. Tuttavia, queste formazioni sono spesso di piccole dimensioni e non riconoscibili al tatto. L’esame del sangue è, in genere, il primo passo nel percorso diagnostico: il dosaggio degli ormoni tiroidei, infatti, segnala in modo certo una disfunzione della ghiandola. Ecografia, TAC e risonanza magnetica sono gli esami che consentono di localizzare un nodulo e stabilirne le dimensioni e la sua eventuale diffusione ai linfonodi circostanti. E’ la biopsia a confermare la diagnosi di tumore e può essere eseguita con il semplice prelievo di un campione di tessuto oppure asportando l’intera ghiandola, qualora il nodulo sia di grandi dimensioni e ci sia più di un sospetto della natura tumorale della massa.
TERAPIA I tumori differenziati della tiroide, contrariamente alle forme neoplastiche più rare che colpiscono la ghiandola, reagiscono positivamente alla terapia a base di radio-iodio e hanno una prognosi a 5 anni favorevole nell’85% dei casi. La rimozione chirurgica della tiroide è il primo passo del percorso terapeutico e può essere estesa anche ai linfonodi circostanti, qualora gli esami diagnostici abbiano confermato un loro coinvolgimento nella progressione tumorale. I pazienti sottoposti a tiroidectomia iniziano, subito dopo l’intervento, la terapia ormonale sostitutiva che consente di compensare il deficit di ormoni e ripristina un equilibrio nelle attività regolate dalla tiroide.
Qualora il tumore diagnosticato sia già in fase avanzata o particolarmente aggressivo, la chemioterapia segue l’intervento chirurgico. Al posto della radioterapia classica è oggi più indicata la terapia radiometabolica, a base di iodio radioattivo, che consente di distruggere in modo più selettivo le cellule tumorali dell’adenocarcinoma. Per i pazienti refrattari anche alla terapia radiometabolica è in attesa di autorizzazione al commercio un antitumorale ad uso orale, sorafenib, già utilizzato per il trattamento del tumore epatico e dei pazienti con tumore avanzato del rene che hanno fallito terapie a base di interferone o interleuchina 2, o che non sono considerati idonei a queste terapie. Negli studi di preclinica, sorafenib ha dimostrato di inibire un gruppo di chinasi coinvolte sia nei processi di proliferazione cellulare (crescita del tumore) che dell’angiogenesi (afflusso sanguigno al tumore) – due processi importanti che permettono al tumore di crescere. Queste chinasi includono Raf -kinase, VEGFR-1, VEGFR-2, VEGFR-3, PDGFR-B, KIT, FLT-3 e RET. La richiesta di autorizzazione al commercio con questa nuova indicazione è stata presentata all’inizio del 2013 in base ai risultato positivo dello studio DECISION (stuDy of sorafEnib in loCally advanced or metastatIc patientS with radioactive Iodine refractory thyrOid caNcer) che ne ha valutato efficacia e sicurezza rispetto al placebo e dimostrato un aumento della sopravvivenza senza progressione della malattia. Il trial internazionale, multicentrico randomizzato, è stato svolto su 417 pazienti con tumore differenziato della tiroide localmente avanzato o metastatico, refrattario al radio-iodio che non avevano ricevuto trattamenti chemioterapici, con inibitori delle tirosin-chinasi, anticorpi monoclonali anti VEGF o anti recettori del VEGF o altre terapie a bersaglio (target therapy).
La macula è la porzione centrale della retina, tessuto fotosensibile in grado di convertire gli stimoli luminosi (immagini) in impulsi elettrici trasmessi poi dalle fibre nervose (nervo ottico) al cervello. Nella regione maculare è presente un’alta densità di pigmento e di elementi cellulari quali i coni rispetto al resto della retina. Tutto ciò rende la regione maculare l’area nobile della retina preposta alla visione distinta. Questa importantissima parte dell’occhio può però andare incontro a problemi degenerativi che ne compromettono in maniera importante la funzione.
La causa più frequente di degenerazione maculare è legata all’età e si parla di Degenerazione Maculare Senile (DMS). La malattia può presentarsi già a 50 anni e la sua incidenza aumenta al crescere dell’età. In Italia colpisce circa il 2% della popolazione, più di un milione di persone. Si stima che ogni anno in Italia si verifichino circa 63 mila nuovi casi di degenerazione maculare legata all’età. È la più comune causa di cecità legale nei paesi sviluppati nella popolazione oltre i 60 anni di età Attenzione: cecità legale non vuol dire che il soggetto ‘vive nel buio’ ma che presenta un grave stato di ipovisione. Nel caso della degenerazione maculare senile, infatti, il paziente perde in particolare le visione centrale. Chi ne è affetto, dunque, può arrivare, secondo le diverse forme, ad essere incapace di leggere, scrivere, di riconoscere i volti e distinguere i dettagli. Per rimanere nell’ambito delle malattie più diffuse la macula può essere interessata anche da altre patologie che si manifestano con maggiore frequenza nell’età avanzata come la retinopatia diabetica, eventi trombotici del circolo retinico – come l’Occlusione della Vena Centrale della Retina (CRVO) - e sindromi dell’interfaccia vitreo-retinica. DEGENERAZIONE MACULARE SENILE (DMS) La DMS ha una prevalenza che varia dall’ 8.5% al 11% nella fascia di età compresa tra i 65 e i 74 anni, e del 27% al di sopra dei 75 anni. Come evidenziano i dati e come specificato chiaramente dal nome si tratta di una malattia legata all'invecchiamento e dunque destinata ad avere un impatto sempre più ampio nella popolazione occidentale a causa dell’aumento delle aspettative di vita. Con l'invecchiamento si manifestano, infatti, delle progressive modificazioni in un insieme di strutture situate al di sotto della retina maculare: epitelio pigmentato retinico, membrana di Bruch e coriocapillare. La sclerosi dei vasi della coroide, l’accumulo di lipidi nella membrana di Bruch e le alterazioni del metabolismo dell'epitelio pigmentato retinico rendono difficoltoso il normale passaggio di ossigeno e nutrienti dalla coroide alla retina. Nello stesso tempo i detriti prodotti dai fotorecettori che normalmente vengono metabolizzati e eliminati dall'epitelio pigmentato retinico si accumulano a formare depositi sotto l'epitelio pigmentato. La degenerazione maculare senile può essere distinta in due forme, la forma umida o essudativa ( DMSE) e la forma secca (o atrofica). Tuttavia la forma secca, più diffusa, può mutare in forma umida. La forma secca, anche nello stadio iniziale, può mutare d’improvviso nella forma umida e non c’è possibilità di dire se e quando la forma secca muterà nella forma umida.
LA DEGENERAZIONE MACULARE UMIDA (DMLE) La forma umida è più rara (colpisce il 10-15% dei pazienti), ma è spesso un’evoluzione della forma secca, progredisce più rapidamente ed è più grave. Questa forma è detta umida o essudativa perché caratterizzata dalla formazione di neovasi sottoretinici anomali dalla parete assai fragile. Questi vasi che si accrescono verso la retina sono estremamente permeabili e possono dare origine, quindi, alla comparsa di fluido sottoretinico, edema maculare, distacchi sierosi dell’epitelio pigmentato retinico e, nei casi più avanzati, tali vasi possono rompersi provocando un’emorragia retinica. La progressione della forma neovascolare è molto più rapida della forma non neovascolare e comporta la formazione di una cicatrice che rimpiazza l’epitelio pigmentato, i fotorecettori e la coroide della retina centrale La degenerazione maculare senile neovascolare, caratterizzata da neovascolarizzazione coroideale (CNV), è presente in meno del 20% di tutti i casi di DMLE, ma è responsabile approssimativamente del 90% di tutti i casi di severa riduzione visiva legata alla DMLE
LA DEGENERAZIONE MACULARE SECCA La forma secca è la più comune ed anche la meno grave. Interessa spesso entrambi gli occhi, ma può manifestarsi anche in modo asimmetrico Più del 85% delle persone con la forma intermedia e avanzata di degenerazione sono affette dalla forma secca. La forma secca o atrofica è caratterizzata da un assottigliamento progressivo della retina centrale, che risulta scarsamente nutrita dai capillari e si atrofizza, determinando la formazione di una lesione atrofica in sede maculare con un aspetto talora a ‘carta geografica’ (areolare). Tale forma mostra a livello maculare la presenza di ‘drusen’: si tratta di depositi di materiale ialino derivato da un alterato metabolismo delle cellule dei fotorecettori, secondario ad alterazioni dell’epitelio pigmentato (atrofia legata all’età), e ad un ispessimento della membrana di Bruch. Se ne distinguono due tipi: Hard drusen (meno gravi): piccole ,rotonde, ben delineate. Soft drusen (più rischiose): più larghe e mal delimitate.
I TRE STRADI DELLA DEGENERAZIONE MACULARE SECCA La Degenerazione legata all’età nella sua forma secca può manifestarsi in tre stadi in relazione alla progressione del danno maculare: I) Stadio precoce: drusen di piccole o medie dimensioni sono presenti a livello maculare in uno o in entrambi gli occhi. Generalmente non è presente un calo della capacità visiva negli stadi precoci. II) Stadio intermedio: a livello maculare sono presenti drusen di medie dimensioni o una o diverse drusen di grandi dimensioni. In questo stadio la visione centrale può cominciare ad alterarsi. III) Stadio avanzato: si riscontrano a livello maculare diverse drusen di grandi dimensioni che possono estendersi quanto la porzione di EPR distrutto. Ciò determina un progressivo e severo calo della visione centrale.
I FATTORI DI RISCHIO Possiamo distinguere i fattori di rischio per questa malattia in ‘non modificabili’ e in ‘modificabili’ I FATTORI DI RISCHIO NON MODIFICABILI SONO: ETÀ: unico fattore di rischio accertato FATTORI GENETICI: Studi familiari e su gemelli omozigoti confermano la maggiore incidenza (rischio 3 volte maggiore) in parenti di primo grado di soggetti affetti da degenerazione maculare legata all’età. RAZZA: maggiore prevalenza nella razza bianca. SESSO: non è stata dimostrata una differenza statisticamente significativa nella prevalenza della patologia tra i due sessi. Il sesso femminile oltre i 75 anni sembra essere più colpito dalla DMLE essudativa. FATTORI DI RISCHIO MODIFICABILI SONO QUELLI LEGATI ALLO STILE DI VITA: FUMO: Fumare più di 20 sigarette al giorno aumenta di 3-4 volte il rischio di DMLE rispetto ai non fumatori. Un aumento del rischio permane, anche se ridotto, negli ex-fumatori. Si stima che il 30% dei casi di DMLE avanzata sia dovuto al fumo in quanto determinante un aumento di fattori ossidanti (danno cellulare), una riduzione del pigmento maculare e uno stimolo per l’angiogenesi. ALCOOL: l’abuso di alcool sembrerebbe aumentare il rischio di sviluppare forme avanzate di DMLE. DIETA: Aumentato apporto di grassi e ridotto apporto di vitamine (C, A, E) e carotenoidi, di sali minerali e di acidi grassi omega-3 STRESS OSSIDATIVI: ESPOSIZIONE CRONICA ALLA LUCE: le radiazioni ultraviolette producono danni a carico delle cellule dei fotorecettori e dell’epitelio pigmentato, mediante la produzione di radicali liberi.
SINTOMI E DIAGNOSI Nelle fasi iniziali, soprattutto se la malattia colpisce un solo occhio, può non dare sintomi apprezzabili. Si può notare una riduzione della visione centrale, le parole appaiono sfocate durante la lettura, si può notare una macchia sfocata al centro o la distorsione delle linee dritte. La distorsione delle immagini è un sintomo frequente all'insorgere della forma umida neovascolare e deve indurre ad una visita oculistica urgente. Difetti del campo visivo centrale e distorsione possono essere apprezzati con un test semplice, la griglia di Amsler. Gli esami diagnostici fondamentali comprendono la misurazione dell’acutezza visiva, un attento esame del fondo oculare in biomicroscopia e la fluorangiografia. Quest’ultima utilizza una sostanza fluorescente alla luce blu (fluoresceina) che impregna la membrana neovascolare e la rende evidente. Sul reperto fluorangiografico la neovascolarizzazione può apparire ben delineata e chiaramente localizzabile (neovascolarizzazione classica), oppure può apparire mal definita e solo sospettabile (neovascolarizzazione occulta). In caso di neovascolarizzazione occulta può essere utile eseguire un secondo esame angiografico che utilizza un colorante fluorescente all’infrarosso (verde di indocianina) in grado di dare un’immagine più definita di questo tipo di neovasi. TRATTAMENTO Nello stadio avanzato della forma secca, ma solo in alcuni casi, si può provare la fotocoagulazione con laser termico. Si usa quando i vasi neoformati sotto la retina sono abbastanza lontani dal centro della macula, ma le recidive sono frequenti. Nella maggior parte dei casi per le forma secca non c’è trattamento. Nella forma umide invece, in stadio avanzato, la terapia fotodinamica è il trattamento di elezione, utilizzato quando i vasi neoformati occupano il centro della macula e hanno determinate caratteristiche. Il trattamento è possibile all’incirca nel 30-40% dei casi. Nella terapia fotodinamica una sostanza fotosensibile (verteporfina) iniettata in vena va ad aderire all’endotelio del vasi neoformati. La verteporfina depositata viene quindi attivata con un laser non termico, e la reazione che ne consegue porta alla chiusura per trombosi dei vasi anomali. La retina adiacente non viene danneggiata. Di regola sono necessari più trattamenti nell'arco di 1-2 anni. L'attenzione attuale è rivolta a terapie farmacologiche mirate all'inibizione del processo di angiogenesi che sta alla base della forma umida di degenerazione maculare. Si stanno valutando diversi farmaci inibitori del VEGF che è il mediatore chiave nel processo di neoformazione dei vasi. Un'attività antiangiogenica è stata riconosciuta ad alcuni steroidi. Vi sono esperienze positive, ma ancora limitate, con l'associazione dell'iniezione intravitreale di triamcinolone con la terapia fotodinamica in forme particolari di degenerazione maculare neovascolare. Il paziente deve essere informato comunque che l'obiettivo della terapia non è di migliorare l'acuità visiva, ma di impedire un ulteriore peggioramento.
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