LA MALATTIA

Il Citomegalovirus (CMV) è un virus appartenente alla famiglia degli Herpesviridae. Si tratta di un agente infettivo  molto comune: nei Paesi sottosviluppati il 90-100% della popolazione  ne è contagiata, mentre in quelli occidentali il 60-80% degli adulti presenta anticorpi anti- Citomegalovirus nel siero. I sintomi, in età adulta e anche nell’infanzia, sono simili a quelli dell’influenza o della mononucleosi. Il virus è però particolarmente pericoloso se contratto dal feto, con una trasmissione verticale madre – figlio: in questo caso e si parla di citomegalovirus congenito.

L’infezione primaria* della madre durante i primi mesi di gravidanza rappresenta, infatti, un significativo fattore di  rischio per l’ aborto spontaneo,  o comunque per  serie conseguenze a carico del feto.
Negli Stati Uniti l’infezione congenita da Citomegalovirus è la più comune tra le infezioni congenite, con una prevalenza dello 0,64 %. All’incirca 1 bambino su 150 nati negli Stati Uniti viene infettato, con un totale di 30.000 casi ogni anno. Quasi 8000 bambini rimangono permanentemente disabili a causa dell’infezione dal virus, con sintomi quali ritardo dello sviluppo, sordità e perdita della vista. Circa 400 neonati muoiono ogni anno per questa causa e, oltre al danno emotivo e umano, tutto ciò si traduce all’incirca in 2 bilioni di dollari di spesa sanitaria annua.

L’INFEZIONE
L’infezione materna da CMV può essere primaria o non primaria.
Le infezioni non primarie consistono nella riattivazione di un’infezione latente o reinfezioni con un nuovo ceppo del virus. Nel caso di infezione non primaria la probabilità che questa si trasferisca al feto è limitata all’1% dei casi. Diversa è la situazione in caso di infezione primaria
*L’'infezione primaria insorge quando la madre entra a contatto con il virus per la prima volta.
Questo accade in circa l’1-4% delle donne in gravidanza e in questo caso la probabilità di trasmissione del virus al feto sale fino al 30- 40%. Se questa trasmissione avviene nei primi mesi di gravidanza è maggiore il rischio di  problemi per il feto, fino all’aborto spontaneo.
Per le donne in età riproduttiva il rischio maggiore di esposizione al virus è attraverso il contatto con l'urina o la saliva di bambini, infatti le donne con  figli piccoli o che lavorano in centri di accoglienza sono considerate “ a più alto rischio d’infezione”.
Il virus può tuttavia essere trasmesso anche attraverso il latte materno, lo sperma, emoderivati, secrezioni cervicali e liquido amniotico.

LA DIAGNOSI
Una volta infettata, la donna produce gli anticorpi IgM e IgG rivolti contro il virus. Il titolo anticorpale IgM è alto dal 1° al 3° mese (fase acuta) e poi decresce successivamente (fase di convalescenza). In alcuni casi, però, le IgM possono persistere fino a 6-9 mesi dopo l'infezione primaria.
Una volta che il virus è presente nel sangue materno gli anticorpi neutralizzanti legano l’antigene virale.
Ma tutti gli anticorpi sono neutralizzanti? Non proprio. Le IgG neutralizzanti sono quelle che legano con alta avidità l'antigene mentre gli anticorpi IgG a bassa avidità hanno scarsa capacità neutralizzante e sono indicativi di un'infezione recente.
La diagnosi di un’infezione primaria si basa sulla rilevazione e la dimostrazione di un’avvenuta sieroconversione degli anticorpi IgG. La sieroconversione è il passaggio dallo stato di sieronegatività (assenza di tali anticorpi nel plasma sanguigno) allo stato di sieropositività (presenza di tali anticorpi nel plasma sanguino).
Dal momento che lo screening di routine in donne a basso rischio non è  raccomandato, la sieroconversione è raramente documentata.
L’infezione primaria può essere sospettata in presenza di anticorpi IgM. Se gli anticorpi IgM sono presenti l'infezione può essere acuta. Tuttavia, essi possono essere presenti anche nella fase di convalescenza o durante infezioni non primarie.  Fino a poco tempo fa poteva essere difficile stabilire con certezza se si era di fronte ad una infezione primaria o meno, oggi però la certezza diagnostica è migliorata. Il test di avidità IgG è in grado di rilevare un’infezione acuta con il 92-100% di sensibilità e 82-100% di specificità.
Questo test determina se l'anticorpo IgG ha alta avidità, indicando una precedente infezione, o bassa avidità, indicando un’infezione primaria. All'anticorpo IgG occorrono da 18 a 20 settimane per dimostrare alta avidità dopo un’infezione acuta. Pertanto, un test di bassa avidità effettuato precedentemente al periodo che va dalla 18° alla 20° settimana di gravidanza può identificare tutte le donne ad alto rischio di gravi infezioni congenite.

PREVENZIONE DEL CONTAGIO MADRE – FETO

L’intervento ideale nella prevenzione dell’infezione congenita da Citomegalovirus (CMV) sarebbe la vaccinazione. Tuttavia, poiché un vaccino sicuro ed efficace  non è al momento disponibile , la strategia di prevenzione è focalizzata sull’educazione materna riguardo due temi: l’igiene, per non contrarre l’infezione in gravidanza, e il potenziale trattamento con immunoglobuline CMV-specifiche o. Questo ultimo tipo di intervento può infatti prevenire la trasmissione materno-fetale. Studi preliminari suggeriscono i che il trattamento con immunoglobuline dopo una infezione materna primaria documentata può ridurre il rischio di infezioni congenite.
Uno studio non randomizzato (Nigro et al – 2005) effettuato su 181 donne  con infezione primaria ha dimostrato il potenziale delle immunoglobuline come mezzo di prevenzione delle infezioni fetali.
Il gruppo di prevenzione era costituito da 37 donne che non avevano subito amniocentesi o perchè il tempo di gestazione era inferiore alle 20 settimane, o perché in prossimità della diagnosi (entro 6 settimane dall’infezione primaria) oppure per il semplice rifiuto di sottoporvisi.
A questo gruppo sono stati somministrati 100 U/kg di HIG ogni mese fino al parto.
Il gruppo di confronto era rappresentato da 47 donne che non avevano subito amniocentesi e che avevano anche rifiutato la terapia di prevenzione.
Nel gruppo di prevenzione il 16% dei neonati alle cui madri era stato somministrato HIG manifestavano un’ infezione congenita, contro il 40% dei neonati appartenenti al gruppo in cui le madri avevano rifiutato la terapia con HIG. Tuttavia esistono controversie riguardanti l’eterogeneità del gruppo di prevenzione, la mancanza di randomizzazione e l’esiguità del campione di questo studio.
Recentemente, i dati preliminari provenienti da uno studio randomizzato sull’uso di CMV HIG per la prevenzione sono stati negativi, con un tasso del 44% di infezioni congenite nel gruppo placebo contro un tasso del 30% nel gruppo di trattamento (p = 0.13). I risultati definitivi non sono stati ancora pubblicati.
Negli Stati Uniti è in corso anche un altro ampio e multicentrico studio randomizzato effettuato dalla Maternal-Fetal Medicine Units Network, l’arruolamento dovrebbe essere chiuso entro il 2016 (“A Randomized Trial to Prevent Congenital Cytomegalovirus Infection,” ClinicalTrials.gov # NCT01376778).

Il Citomegalovirus (CMV) è un virus appartenente alla famiglia degli Herpesviridae. Si tratta di un agente infettivo molto comune: nei Paesi sottosviluppati il 90-100% della popolazione ne è contagiata, mentre in quelli occidentali il 60-80% degli adulti presenta anticorpi anti- Citomegalovirus nel siero. I sintomi, in età adulta e anche nell’infanzia, sono simili a quelli dell’influenza o della mononucleosi. Il virus è però particolarmente pericoloso se contratto dal feto, con una trasmissione verticale madre – figlio: in questo caso e si parla di citomegalovirus congenito.

L’infezione primaria* della madre durante i primi mesi di gravidanza rappresenta, infatti, un significativo fattore di rischio per l’ aborto spontaneo, o comunque per serie conseguenze a carico del feto.
Negli Stati Uniti l’infezione congenita da Citomegalovirus è la più comune tra le infezioni congenite, con una prevalenza dello 0,64 %. All’incirca 1 bambino su 150 nati negli Stati Uniti viene infettato, con un totale di 30.000 casi ogni anno. Quasi 8000 bambini rimangono permanentemente disabili a causa dell’infezione dal virus, con sintomi quali ritardo dello sviluppo, sordità e perdita della vista. Circa 400 neonati muoiono ogni anno per questa causa e, oltre al danno emotivo e umano, tutto ciò si traduce all’incirca in 2 bilioni di dollari di spesa sanitaria annua.

L’INFEZIONE

L’infezione materna da CMV può essere primaria o non primaria.

Le infezioni non primarie consistono nella riattivazione di un’infezione latente o reinfezioni con un nuovo ceppo del virus. Nel caso di infezione non primaria la probabilità che questa si trasferisca al feto è limitata all’1% dei casi. Diversa è la situazione in caso di infezione primaria

*L’'infezione primaria insorge quando la madre entra a contatto con il virus per la prima volta.
Questo accade in circa l’1-4% delle donne in gravidanza e in questo caso la probabilità di trasmissione del virus al feto sale fino al 30- 40%. Se questa trasmissione avviene nei primi mesi di gravidanza è maggiore il rischio di problemi per il feto, fino all’aborto spontaneo.
Per le donne in età riproduttiva il rischio maggiore di esposizione al virus è attraverso il contatto con l'urina o la saliva di bambini, infatti le donne con figli piccoli o che lavorano in centri di accoglienza sono considerate “ a più alto rischio d’infezione”.

Il virus può tuttavia essere trasmesso anche attraverso il latte materno, lo sperma, emoderivati, secrezioni cervicali e liquido amniotico.



LA DIAGNOSI

Una volta infettata, la donna produce gli anticorpi IgM e IgG rivolti contro il virus. Il titolo anticorpale IgM è alto dal 1° al 3° mese (fase acuta) e poi decresce successivamente (fase di convalescenza). In alcuni casi, però, le IgM possono persistere fino a 6-9 mesi dopo l'infezione primaria.

Una volta che il virus è presente nel sangue materno gli anticorpi neutralizzanti legano l’antigene virale.

Ma tutti gli anticorpi sono neutralizzanti? Non proprio. Le IgG neutralizzanti sono quelle che legano con alta avidità l'antigene mentre gli anticorpi IgG a bassa avidità hanno scarsa capacità neutralizzante e sono indicativi di un'infezione recente.
La diagnosi di un’infezione primaria si basa sulla rilevazione e la dimostrazione di un’avvenuta sieroconversione degli anticorpi IgG. La sieroconversione è il passaggio dallo stato di sieronegatività (assenza di tali anticorpi nel plasma sanguigno) allo stato di sieropositività (presenza di tali anticorpi nel plasma sanguino).

Dal momento che lo screening di routine in donne a basso rischio non è raccomandato, la sieroconversione è raramente documentata.

L’infezione primaria può essere sospettata in presenza di anticorpi IgM. Se gli anticorpi IgM sono presenti l'infezione può essere acuta. Tuttavia, essi possono essere presenti anche nella fase di convalescenza o durante infezioni non primarie. Fino a poco tempo fa poteva essere difficile stabilire con certezza se si era di fronte ad una infezione primaria o meno, oggi però la certezza diagnostica è migliorata. Il test di avidità IgG è in grado di rilevare un’infezione acuta con il 92-100% di sensibilità e 82-100% di specificità.

Questo test determina se l'anticorpo IgG ha alta avidità, indicando una precedente infezione, o bassa avidità, indicando un’infezione primaria. All'anticorpo IgG occorrono da 18 a 20 settimane per dimostrare alta avidità dopo un’infezione acuta. Pertanto, un test di bassa avidità effettuato precedentemente al periodo che va dalla 18° alla 20° settimana di gravidanza può identificare tutte le donne ad alto rischio di gravi infezioni congenite.


PREVENZIONE DEL CONTAGIO MADRE – FETO

L’intervento ideale nella prevenzione dell’infezione congenita da Citomegalovirus (CMV) sarebbe la vaccinazione. Tuttavia, poiché un vaccino sicuro ed efficace non è al momento disponibile , la strategia di prevenzione è focalizzata sull’educazione materna riguardo due temi: l’igiene, per non contrarre l’infezione in gravidanza, e il potenziale trattamento con immunoglobuline CMV-specifiche o. Questo ultimo tipo di intervento può infatti prevenire la trasmissione materno-fetale. Studi preliminari suggeriscono i che il trattamento con immunoglobuline dopo una infezione materna primaria documentata può ridurre il rischio di infezioni congenite.
Uno studio non randomizzato (Nigro et al – 2005http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16192480 )effettuato su 181 donne con infezione primaria ha dimostrato il potenziale delle immunoglobuline come mezzo di prevenzione delle infezioni fetali.
Il gruppo di prevenzione era costituito da 37 donne che non avevano subito amniocentesi o perchè il tempo di gestazione era inferiore alle 20 settimane, o perché in prossimità della diagnosi (entro 6 settimane dall’infezione primaria) oppure per il semplice rifiuto di sottoporvisi.

A questo gruppo sono stati somministrati 100 U/kg di HIG ogni mese fino al parto.

Il gruppo di confronto era rappresentato da 47 donne che non avevano subito amniocentesi e che avevano anche rifiutato la terapia di prevenzione.

Nel gruppo di prevenzione il 16% dei neonati alle cui madri era stato somministrato HIG manifestavano un’ infezione congenita, contro il 40% dei neonati appartenenti al gruppo in cui le madri avevano rifiutato la terapia con HIG. Tuttavia esistono controversie riguardanti l’eterogeneità del gruppo di prevenzione, la mancanza di randomizzazione e l’esiguità del campione di questo studio.

Recentemente, i dati preliminari provenienti da uno studio randomizzato sull’uso di CMV HIG per la prevenzione sono stati negativi, con un tasso del 44% di infezioni congenite nel gruppo placebo contro un tasso del 30% nel gruppo di trattamento (p = 0.13). I risultati definitivi non sono stati ancora pubblicati.

Negli Stati Uniti è in corso anche un altro ampio e multicentrico studio randomizzato effettuato dalla Maternal-Fetal Medicine Units Network, l’arruolamento dovrebbe essere chiuso entro il 2016 (“A Randomized Trial to Prevent Congenital Cytomegalovirus Infection,” ClinicalTrials.gov # NCT01376778).

Le sindromi mielodisplastiche (SMD) sono un gruppo di malattie del sangue caratterizzate da un difetto nel midollo osseo che non riesce più a produrre in numero sufficiente alcune linee cellulari del sangue come globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Le SMD sono anche chiamate malattie preleucemiche perchè possono evolvere, con il tempo, in leucemia in forma acuta. La causa alla base di questo gruppo di malattie è ancora sconosciuta e si pensa sia associata a difetti genetici, ereditari o acquisiti.

DIFFUSIONE
Le Sindromi Mielodisplastiche sono tra le patologie più frequenti nella popolazione anziana e, sebbene possano insorgere a qualsiasi età, colpiscono principalmente dopo i 70 anni. Oggi si diagnosticano 12-15 mila nuovi casi ogni anno. Le SMD sono considerate malattie geriatriche e la loro diffusione sembra destinata a crescere in relazione al progressivo aumento dell’età della popolazione mondiale.

SINTOMI
Non ci sono sintomi specifici che possano ricondurre alle SMD. Tra le principali manifestazioni sono l’anemia, con pallore e spossatezza, una perdita di peso eccessiva, una maggiore predisposizione alle infezioni dovuta a un numero ridotto di globuli bianchi (leucopenia), emorragie ricorrenti associate a un calo nella produzione di piastrine (piastropenia). La classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, adottata dal 2008, consente la distinzione di diverse forme di SMD in relazione alle caratteristiche biologiche e genetiche delle cellule difettose nel sangue. Si riconoscono citopenia refrattaria con displasia unilineare (anemia refrattaria, neutropenia refrattaria, trombocitopenia refrettaria), anemia refrattaria con sideroblasti ad anello, citopenia refrattaria con displasia multilineare, anemia refrattaria con eccesso di blasti di tipo 1 e 2, sindrome mielodisplatica inclassificabile e sindrome mielodisplatica con delezione del braccio lungo del cromosoma 5 (5q).

Oltre alle manifestazioni cliniche dovute al deficit nel midollo osseo, i pazienti possono sviluppare altre condizioni come conseguenze della patologia. L’evoluzione in leucemia mieloide acuta si può verificare con tempi associati alla gravità della malattia iniziale che vanno da 2-3 mesi a dieci anni. Il ricorso a trasfusioni, per sopperire al numero insufficiente di globuli rossi, può comportare un accumulo di ferro a carico di fegato, pancreas, tiroide e cuore con conseguente perdita di funzionalità normale di questi organi.


DIAGNOSI
L’assenza di sintomi specifici e l’età avanzata dei pazienti più colpiti, che possono presentare delle comorbilità, rendono difficile la diagnosi precoce di SMD.
L’individuazione e classificazione di una di queste patologie si basa sulla biopsia del midollo osseo che consente la quantificazione della percentuale di blasti e delle altre linee cellulari del sangue. Il sospetto di queste forme patologiche, in genere, è sollevato da un’anemia grave non riconducibile ad altre malattie, per cui l’iter diagnostico prevede una serie di esami come emocromo, esami emato-chimici e radiologici prima di giungere alla biopsia midollare. Il 50-70% dei pazienti con SMD presenta delle alterazioni cromosomiche perciò l’attuale diagnosi comprende anche un’analisi del cariotipo.
Il Sistema di Punteggio Prognostico Internazionale (International Prognostic Scoring System - IPSS) aiuta i Medici nel convertire gli esiti di vari esami (numero di citopenie, numero di blasti e risultati dell’esame citogenetico) in un punteggio, che permette di prevedere con che probabilità la Sindrome Mielodisplastica può peggiorare e trasformarsi in una leucemia acuta ed è utile nel calcolo della sopravvivenza.


TERAPIA
Le SMD sono trattate come altre patologie tumorali del sangue, e il trapianto di midollo osseo è attualmente il solo trattamento in grado di guarirle.

Altre opzioni di trattamento includono la chemioterapia, che comporta l’impiego di più farmaci in associazione in schemi codificati, la terapia di supporto che consente di attenuare i sintomi legati al deficit del midollo attraverso trasfusioni, la somministrazione di farmaci antiemorragici, terapie ferrochelanti per ridurre l’accumulo di ferro negli organi e antibiotici per ridurre l’insorgere di infezioni.
Negli ultimi anni è stato introdotto l’uso di immunomodulanti, come lenalidomide, farmaco disponibile tramite la legge 648/96 per la sindrome mielodisplastica a basso rischio con delezione del braccio lungo del cromosoma 5, e immunosoppressori, come ciclosporina, steroidi, androgeni e globulina antitimocitaria, che agiscono sulla reazione autoimmunitaria di alcune di queste forme patologiche. La terapia con farmaci demetilanti è stata approvata per le SMD a più alto rischio, con azacitidina e decitabina, non approvata in Europa, e, soprattutto per pazienti che non possono sottoporsi al trapianto di cellule staminali.

Il mieloma multiplo è un tumore che colpisce il midollo osseo, la sede principale dell’organismo in cui vengono prodotte le cellule del sistema immunitario e del sangue. In particolare, questo tipo di neoplasia ha come bersaglio le plasmacellule, cellule immunitarie che hanno la funzione di produrre anticorpi e difenderci dalle infezioni. Le cellule del mieloma sono caratterizzate dalla produzione in eccesso di un anticorpo, noto come paraproteina o Componente M, che viene rilevato nel siero del paziente e facilita la diagnosi. Inoltre, viene prodotta anche una grande quantità di citochine, segnali dell’infiammazione, che possono interferire con la formazione delle altre cellule del sangue o con la sintesi di osteoclasti, le cellule dell’osso, innescando fragilità e fratture ossee tipiche di questa forma tumorale.
Si riconoscono diversi tipi di mieloma, in relazione al tipo di anticorpo prodotto in modo anomalo dalle cellule tumorali. Il più diffuso è il mieloma multiplo, localizzato nel midollo osseo e secernente immunoglobuline (per lo più IgG e IgA) nella loro forma completa. Le plasmacellule difettose possono produrre solo parti di anticorpi come nel mieloma micromolecolare che secerne solo le catene leggere dell’anticorpo. Una forma più rara del tumore è il mieloma non secernente, caratterizzato da un elevato numero di plasmacellule difettose ma che non producono anticorpi.

DIFFUSIONE
Il mieloma multiplo è il secondo tumore del sangue più diffuso, dopo il linfoma di non-Hodgkin. Si manifesta con l’avanzare dell’età e due terzi dei casi di mieloma multiplo insorgono dopo i 65 anni di età. Ogni anno in Italia si diagnosticano oltre 3 mila casi di mieloma, con un’incidenza lievemente maggiore negli uomini rispetto alle donne. Seppure non siano ancora state chiarite le cause alla base di questa neoplasia, negli ultimi anni si è assistito a un aumento del numero di casi, principalmente associato al generale avanzare dell’età nel mondo.

SINTOMI
Il dolore osseo, per lo più localizzato a livello del cranio, della schiena e delle anche, è il sintomo che caratterizza maggiormente il mieloma multiplo. Ad esso si associa anche una maggiore frequenza di fratture ossee, dovute all’interferenza delle immunoglobuline difettose con la sintesi di osteoclasti, indispensabile per mantenere integre le ossa. I pazienti colpiti manifestano anche astenia e debolezza, causate da una scarsa produzione di globuli rossi nel midollo osseo, ecchimosi e sanguinamenti, dovuti alla minore produzione di piastrine nel midollo colpito dal tumore (trompocitopenia). Il tumore può, infine, manifestarsi anche nell’insorgenza di insufficienza renale e neuropatie, associate ad alti livelli di calcio nel sangue per la distruzione delle cellule ossee, con conseguente manifestazione di debolezza e confusione mentale. I sintomi che caratterizzano il mieloma multiplo sono aspecifici e possono essere ricondotti anche ad altre patologie a carico di ossa, sangue e nervi, rendendo quindi difficile la diagnosi di tumore.

DIAGNOSI
La diagnosi di mieloma multiplo è difficile per la presenza di sintomi aspecifici o, in alcuni casi, di una forma silente della malattia.
A una prima analisi, il sospetto di questo tumore emerge principalmente dall’individuazione di elevati livelli di immunoglobuline nel sangue attraverso un esame di laboratorio chiamato elettroforesi delle proteine sieriche.
Per una diagnosi completa di mieloma multiplo e per monitorare il suo decorso sono importanti anche altri esami: esami del sangue (dosaggio di paraproteina, emoglobina, piastrine, globuli bianchi, albumina, calcio, acido urico, ecc), esame delle urine, esami radiologici (Rx, RMN, TAC, PET).

La biopsia del midollo osseo è un esame fondamentale per diagnosticare la malattia e consiste nel prelievo di un campione di osso tramite una siringa (aspirato midollare). Il campione viene esaminato per stabilire la percentuale di plasmacellule presenti nel midollo osseo e identificare il tumore: nel soggetto sano le plasmacellule sono inferiori al 5%, valori del 5-10% identificano una gammapatia monoclonale di significato incerto (MGUS) che raramente progredisce nel tumore ma è bene tenere sotto controllo, e valori maggiori al 10% sono associati al mieloma. Nei casi di mieloma silente o asintomatico la percentuale di cellule mielomatose è, in genere, compresa tra il 10-30%.

TERAPIA
La chemioterapia è, come per tutte le forme tumorali, un’importante opzione terapeutica tuttavia negli ultimi anni è stata confermata l’efficacia di alcuni trattamenti che hanno contribuito a prolungare la sopravvivenza media.

Dal 2000 sono stati introdotti alcuni farmaci che vengono utilizzati in combinazione con altri trattamenti o da soli. Alla talidomide, tristemente famosa per i suoi effetti collaterali nei neonati se assunto in gravidanza che la fece ritirare dal mercato ma che ha dimostrato una buona efficacia su questo tipo di tumore, si sono aggiunti, altri due agenti immunomodulatori da essa derivati, la lenamidomide e la pomalidomide. Di recente adozione per la terapia è anche il bortezomib, un inibitore reversibile del proteosoma.

Il trapianto di cellule staminali è stato introdotto negli anni ’90 e rappresenta un’opzione per riparare alla distruzione di cellule ematopoietiche dovute ad alte dosi di chemioterapici. Questo trattamento è, infatti, entrato nella pratica clinica per contribuire alla sopravvivenza del paziente sottoposto a cicli di terapia molto invasivi. Le cellule staminali sono prelevate dal sangue del paziente stesso (trapianto autologo) o dal midollo osseo di un donatore esterno (trapianto allogenico), e reimpiantate del paziente. Il trapianto autologo presenta minore rischio di rigetto tuttavia è associato a una maggiore probabilità che il tumore si ripresenti. Negli ultimi anni gli studi clinici hanno confermato una maggiore efficacia sul rallentamento della malattia del trapianto da donatore, e la tecnica è stata perfezionata per minimizzare gli effetti collaterali.

 

 

LA MALATTIA
La fibrosi polmonare idiopatica (IPF) è una malattia rara del polmone la cui causa esatta resta tuttora ignota (da cui il termine 'Idiopatica'). Ciò che è ben conosciuto è che nella IPF si verifica una modificazione nei normali processi di guarigione del polmone, con una eccessiva produzione di tessuto cicatriziale che va a sostituire gradualmente i piccoli 'sacchetti' dei polmoni chiamati alveoli. Sfortunatamente, non si manifestano sintomi di questa modificazione fino a che il tessuto cicatriziale non si sia accumulato nei polmoni, compromettendo la respirazione. Nel tempo, tale processo di cicatrizzazione peggiora, i polmoni si fanno più rigidi e respirare diventa difficile. Il paziente percepirà così una progressiva mancanza di fiato.

La malattia di Alzheimer è una forma di demenza progressiva. Ad oggi ancora non si conoscono le cause di questa malattia. Nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer si osserva una perdita di cellule nervose nelle aree cerebrali vitali per la memoria e per altre funzioni cognitive. Si riscontra, inoltre, un basso livello di quelle sostanze chimiche, come l'acetilcolina, che lavorano come neurotrasmettitori e sono quindi coinvolte nella comunicazione tra le cellule nervose.
E’ una malattia dal decorso lento, in media i pazienti possono vivere fino a 8-10 anni dopo la diagnosi della malattia ma la rapidità con cui i sintomi si acutizzano varia da persona a persona.

È  una neoplasia maligna che origina nel midollo emopoietico da cellule della serie linfoide comprendente un tipo di globuli bianchi, i linfociti e le plasmacellule che da essi originano.
Le cellule più immature vengono chiamate blasti. Quando la trasformazione tumorale riguarda i blasti della serie linfoide si parla di leucemia linfoblastica acuta. Nelle leucemie acute i blasti midollari sono in genere  superiori al 20 per cento di tutte le cellule del midollo. Inoltre compaiono in variabile proporzione anche nel sangue periferico, dove normalmente sono assenti.

La Sclerosi Laterale Amiotrofila (SLA) è una malattia neurodegenerativa che compare nella maggior parte dei casi dopo i 50 anni e porta ad una degenerazione dei neuroni di moto o motoneuroni. La malattia è conosciuta anche come Morbo di Lou Gehrig, dal nome del famoso giocatore americano di baseball che ne fu colpito, o come malattia di Charcot dal nome del neurologo francese che per primo la descrisse nel 1860. Nella maggior parte dei casi, oltre il 90 per cento, la malattia è sporadica e sulle sue cause non c’è ancora certezza nonostante negli ultimi anni siano stati compiuti numerosi studi e siano state avanzate molte ipotesi. Il  5 – 10 per cento dei casi sono invece di Sla familiare, presentano cioè dei precedenti in famiglia. La sua incidenza è di circa 1 – 3 casi ogni 100.000 abitanti all’anno. Attualmente in Italia non si conosce il numero esatto di malati poiché non sono stati ancora completati i relativi registri. Tuttavia si stimano almeno 3.500 malati e 1.000 nuovi casi all’anno con una forte concentrazione il Lombardia, seguita da Campania, Lazio e Sicilia anche se questo potrebbe dipendere in buona parte da una maggiore capacità di diagnosi delle strutture ospedaliere locali.

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