SLA: intervista al professor Adriano Chiò
Professor Adriano Chiò

Uno studio coordinato dagli esperti di Torino ha identificato 33 proteine correlate all’insorgenza della patologia. Il Prof. Adriano Chiò: “Servirà comunque tempo per validare questo metodo diagnostico”

Una delle domande a cui l’uomo sta attualmente tentando di dare una risposta è se l’intelligenza artificiale sia uno straordinario strumento di supporto alle attività lavorative (e non solo) oppure un possibile nemico incontrollabile di cui siamo creatori e potenziali vittime. Per renderci conto di quale possa essere il valore di questa tecnologia si può iniziare dalle sue applicazioni in ambito sanitario e, più nello specifico, nel campo della ricerca sulla sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Pochi giorni fa, infatti, sono stati diffusi i risultati di uno studio nel quale un gruppo internazionale di ricercatori ha analizzato l’impatto di oltre tremila proteine del sangue in relazione alla comparsa dei sintomi iniziali della malattia: un progetto che solo dieci anni fa non avrebbe potuto essere realizzato nello stesso modo e che si rivelerà prezioso per la futura elaborazione di un pannello di test in grado di supportare i medici nella diagnosi precoce di questa grave, e ad oggi incurabile, patologia neurodegenerativa.

PROTEOMICA E BIOMARCATORI AL SERVIZIO DELLA DIAGNOSI

“Nel nostro studio, attraverso una metodologia che permette di analizzare in contemporanea e di confrontare migliaia di proteine del sangue a partire da un semplice prelievo ematico, si è potuto osservare che un gruppo di esse correla al 95% con la diagnosi di SLA”, precisa Adriano Chiò, Professore Ordinario di Neurologia all’Università degli Studi di Torino e Direttore della S.O.C. di Neurologia 1 dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria ‘Città della Salute e della Scienza’ di Torino, uno dei principali autori della ricerca pubblicata in questi giorni sulla rivista Nature Medicine. “Si tratta di un livello elevatissimo di certezza che ci mette sulla buona strada per arrivare a definire un insieme di biomarcatori per la SLA”.

Un biomarcatore rappresenta un segnale biologico correlato alla presenza di una certa patologia: deve essere sempre misurabile e il più possibile specifico per la malattia in questione. I biomarcatori sono classificati in varie categorie (di diagnosi, di prognosi, di funzione, di rischio) e comprendono proteine, enzimi e persino geni (l’espressione, la regolazione o la funzione di un gene possono indicare la presenza di una certa condizione). La proteomica è la scienza che studia l’intero corpo delle proteine di una cellula e, grazie all’avanzamento e ai progressi della tecnologia, negli ultimi anni ha permesso di trovare sempre nuovi e affidabili marcatori per un vasto numero di malattie.

Come emerso anche nel recente “Manifesto sui bisogni clinici insoddisfatti dei malati con SLA”, documento realizzato da OMaR con la collaborazione delle principali associazioni italiane che si occupano della patologia, la promozione della ricerca scientifica sulla sclerosi laterale amiotrofica allo scopo di identificare innovativi strumenti di diagnosi e trattamento è in cima alle priorità di medici, pazienti e familiari. La SLA si conferma una patologia neurodegenerativa progressiva che presenta un ‘conto’ elevatissimo in primo luogo a coloro che ne sono affetti, ma anche a quanti si prendono cura dei malati e all’intero sistema sanitario. La diagnosi, in particolare, continua a essere basata sulla valutazione clinica da parte del neurologo: mancano proprio biomarcatori specifici per la malattia, con cui distinguerla da altre condizioni neurodegenerative caratterizzate da un corteo di sintomi sovrapponibili a quelli della SLA.

LA GENETICA PER RIDURRE I TEMPI DI DIAGNOSI NELLE FORME FAMILIARI DI SLA

Attualmente, il ritardo diagnostico della SLA varia da 6 fino a 18 mesi, a seconda di quanto la degenerazione dei motoneuroni e i sintomi ad essa collegati permettono di stabilire la presenza della malattia rispetto ad altre condizioni. Fortunatamente, la genetica viene incontro al neurologo per l’individuazione delle forme familiari della patologia. “Ad oggi sono noti 4 geni associati alla SLA”, afferma Chiò. “Innanzitutto C9orf72, responsabile di circa l’8% delle forme familiari di SLA, poi SOD1 (2% delle forme familiari), TDP-43 (1-2% delle forme familiari, sebbene con una grossa variazione regionale) e FUS (meno dell’1% delle forme familiari). Nei casi con familiarità si esegue immediatamente l’analisi di questo pannello di geni ma in Italia è uso allargare l’indagine anche a coloro che non hanno parenti con la malattia, soprattutto se i sintomi si presentano in età giovanile (al di sotto dei 50 anni)”. Negli anni sono stati scoperti altri geni - come quello che codifica per l’annessina A11 - coinvolti nella genesi di certe forme di SLA, tuttavia il loro utilizzo in ambito diagnostico è secondario all’interpretazione clinica.

Va specificato che, ad oggi, la ricerca di mutazioni nel gene SOD1 dovrebbe essere eseguita sempre, dal momento che è attualmente disponibile una terapia specifica per i pazienti con SLA positivi a tale alterazione genetica”, precisa Chiò. “In questo caso siamo di fronte a un cambio di paradigma: se esiste una terapia per una data forma di malattia, il relativo test diagnostico deve essere eseguito sempre e comunque”.

PERCHÉ È IMPORTANTE UNA DIAGNOSI PRECOCE?

L’obiettivo del team di neurologi e dei biotecnologi coordinato dal prof. Chiò è stato di cercare tra gli infiniti segnali biologici prodotti dall’organismo quelli specificamente collegati alla SLA, al fine di aprire la strada alla ricerca di nuovi possibili marcatori: nello studio internazionale pubblicato su Nature Medicine sono state analizzate 3.072 proteine circolanti nel sangue, e per fare ciò è stato utilizzato il materiale biologico proveniente da 231 pazienti con diagnosi di SLA e 384 individui di controllo. Gli studiosi sono quindi ricorsi a Olink Explore 3072, un programma di proteomica altamente specifico che consente di misurare con la massima precisione la concentrazione delle oltre tremila proteine circolanti nel plasma.

L’utilizzo dei controlli sani per confrontare le differenze di espressione delle proteine è stato importante, ma ben più rilevante è stato il confronto con individui affetti da patologie neurodegenerative diverse dalla SLA, che con essa condividono alcune manifestazioni tipiche e che, perciò, entrano in diagnosi differenziale”, prosegue Chiò. “Dobbiamo trovare un sistema affidabile per distinguere una malattia dall’altra e anticipare il più possibile la diagnosi di SLA, perché un ritardo diagnostico anche di soli 2-3 mesi significa che il paziente ritarda l’assunzione della terapia farmacologica o delle sedute di fisioterapia indispensabili al mantenimento di una buona qualità di vita”.

Tuttavia, in assenza di una terapia risolutiva, c’è chi si interroga sul senso di una diagnosi anticipata. “In realtà una diagnosi tempestiva è sempre un obiettivo prezioso, perché più tardi il paziente inizia il trattamento - ad esempio con il riluzolo, il primo farmaco approvato per la SLA in Europa e in Italia - e minore sarà la sua azione”, aggiunge il neurologo. Ritardare l’avvio delle terapie significa perdere l’opportunità di intervenire nelle fasi in cui i farmaci sortiscono il maggior effetto. Inoltre, un paziente con una diagnosi certa di SLA ha la possibilità di entrare negli studi clinici, soprattutto quelli sulle fasi precoci di malattia. “I dati della proteomica serviranno a risolvere almeno in parte questo problema”, afferma Chiò.

UN AIUTO PER COMPRENDERE I MECCANISMI PATOGENETICI DELLA SLA

Lo studio pubblicato su Nature Medicine ha permesso di identificare 33 proteine (fra cui i neurofilamenti a catena leggera, NfL) i cui livelli erano significativamente alterati nel sangue dei pazienti con SLA rispetto alle persone sane. “Si tratta di proteine che insistono sulle componenti muscolare, neuro-infiammatoria e della neuro-trasmissione”, puntualizza Chiò. “Questi tre sistemi sono coinvolti nella patogenesi della SLA, e la comprensione di quali proteine sono alterate ci aiuta anche a fare chiarezza sui meccanismi alle base della malattia, che ancora oggi non sono stati del tutto chiariti”.

Successivamente, i ricercatori hanno combinato questo riscontro con quello proveniente dai dati clinici e anamnestici e, infine, hanno impiegato tecniche di “machine learning”, basate su algoritmi di intelligenza artificiale, per sviluppare un modello in grado di distinguere tra individui sani e persone affette da SLA con un’accuratezza del 98,3%. “Abbiamo visto che alcune di queste proteine correlano con l’espressione di C9orf72”, chiarisce Chiò. “Perciò sarà fondamentale da qui in avanti analizzare i vari sottogruppi di pazienti e definire il più possibile le caratteristiche di ognuno”.

La SLA è una patologia complessa ed eterogenea ma uno studio di proteomica di tale ampiezza alza il velo sul ruolo e la funzione di specifiche proteine, osservando come esse agiscano nel corso dei processi che portano allo sviluppo della malattia. “Per ora questo pannello di proteine non è un test disponibile sul mercato”, conclude l’esperto. “Serviranno almeno un paio d’anni per le fasi validazione, durante cui potrà essere impiegato nei centri clinici e proposto a tutti coloro che si presentano precocemente dopo la comparsa dei primi sintomi. Non è però un test da proporre a individui sani che vogliano scoprire se svilupperanno la malattia, bensì è adatto ai familiari dei pazienti e, più in generale, a quanti stanno iniziando un cammino di diagnosi differenziale”.

Il dosaggio delle proteine con metodiche di proteomica non è particolarmente complesso ma occorrerà disporre di procedure standardizzate affinché nel prossimo futuro questi sistemi varchino le porte degli ambulatori. E servirà una validazione sul campo che coinvolga più persone possibile. Da una parte l’intelligenza artificiale sta già dimostrando la sua utilità nell’elaborare enormi moli di dati, ma dall’altra occorrerà uno sforzo plurale per raccogliere le informazioni necessarie e costruire nuovi modelli che possano non solo anticipare il più possibile la diagnosi di SLA, ma anche fungere da base per lo sviluppo di terapie mirate e, si spera, risolutive.

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