Il documento è frutto di un’opera di revisione condotta da 29 esperti internazionali e fornisce 31 raccomandazioni su 5 grandi aree di interesse, tra cui diagnosi e terapia
Nel racconto “Il Parlamento”, Jorge Luis Borges riflette sul concetto di individualità e sulle differenti versioni dell’identità, immaginando un parlamento in cui ognuno dei membri rappresenta più figure al contempo e cercando di gettare le basi per un sapere universale da conservare. Nella realtà medica un “parlamento” ideale può essere riempito dagli specialisti di tutte discipline mediche che si ritrovano a discutere i punti cardine nel percorso di diagnosi e trattamento di una malattia. Il prodotto di questo lavoro sono le cosiddette “linee guida”, come quelle apparse sulle pagine di The Lancet Haematology e dedicate al deficit di piruvato chinasi (PKD), alla stesura delle quali ha preso parte una delle più note esperte italiane in materia, la professoressa Wilma Barcellini.
LA MALATTIA
Il deficit di piruvato chinasi (PKD) è una patologia genetica rara caratterizzata dalla presenza di mutazioni nel gene PKLR, coinvolto nella sintesi di un enzima – la piruvato chinasi (PK) – determinante per la produzione di energia da parte dei globuli rossi. Infatti, queste cellule, indispensabili per il trasporto dell’ossigeno a tutti i distretti dell’organismo, hanno bisogno di energia per svolgere i propri compiti e per produrla si affidano alla glicolisi, un processo a più tappe ognuna delle quali vede l'azione di uno specifico enzima. La piruvato chinasi (PK) presiede una delle stazioni finali di elaborazione del glucosio con produzione di energia (ATP): senza PK la catena si interrompe e il globulo rosso entra in sofferenza. Il deficit di PK è dunque una patologia caratterizzata da anemia emolitica di grado variabile che, nei casi più severi, impone al paziente ripetute trasfusioni di sangue; tra gli altri sintomi figurano il sovraccarico di ferro, la riduzione della densità ossea - col rischio di osteoporosi - e una serie di complicazioni cardiopolmonari ed endocrine che compaiono più raramente ma che possono compromettere pesantemente la qualità di vita dei malati.
LE LINEE GUIDA AGGIORNATE
“Con le nuove linee guida abbiamo voluto mettere a disposizione dei medici uno strumento completo ed aggiornato per la corretta gestione del paziente affetto da deficit di PK”, precisa la prof.ssa Barcellini, già Responsabile dell’U.O.S. di Fisiopatologia delle Anemie e attualmente collaboratrice scientifica onoraria presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda-Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. “Il punto di partenza è stato un confronto tra le esperienze cliniche nella presa in carico dei pazienti in diverse realtà ospedaliere a livello mondiale, per trarre raccomandazioni universalmente valide, basate sulle evidenze della letteratura scientifica e sulla pratica clinica degli esperti, che aiutino i medici a raggiungere la miglior gestione dei malati, anche nei Paesi in cui le risorse a disposizione della sanità sono limitate”. Nate dal confronto tra 29 esperti di livello internazionale provenienti da Stati Uniti, Canada e svariati Paesi dell’Europa, fra cui l’Italia, le nuove linee guida sono frutto di un’attenta revisione della letteratura scientifica e di un confronto dialogico tra gli esperti, che si sono divisi in gruppi e hanno stilato raccomandazioni relative a diagnosi, monitoraggio delle complicanze, terapie standard, nuovi trattamenti e gestione della malattia in gravidanza e nei pazienti pediatrici. Infine, tali raccomandazioni sono state discusse e sottoposte a voto per ottenere una percentuale di consenso che ne determini la robustezza.
LA DIAGNOSI
“Il sospetto di un deficit di PK è avvalorato dalla presenza di anemia ed emolisi, facilmente individuabili già dall’emocromo”, prosegue Barcellini. “Tuttavia, ciò non significa che tutti i pazienti anemici siano affetti dalla malattia: infatti, la prima raccomandazione degli esperti è di sottoporre ai test specifici coloro in cui sia stata riscontrata un’anemia emolitica non autoimmune e nei quali siano state escluse le cause più comuni di anemia, tra cui carenza di ferro o di vitamine, altre emoglobinopatie come la talassemia, oppure deficit di membrana come la sferocitosi”. Occorre pertanto iniziare dall’indagine sulla natura stessa dell’anemia, aggiungendo all’emocromo il dosaggio dei reticolociti, della bilirubina (totale e diretta), dell’enzima lattico-deidrogenasi (LDH) e dell’aptoglobina. “Una volta scartate le più frequenti cause di anemia, in assenza di un riscontro chiaro si passa ai test specifici, che sono il dosaggio enzimatico della piruvato chinasi e la ricerca di mutazioni associate alla patologia, con test di biologia molecolare”, continua l’esperta. “Entrambi i metodi sono utili ma devono essere svolti in appositi centri di riferimento da personale con elevata esperienza sulla malattia, dal momento che possono presentare criticità: il dosaggio enzimatico, infatti, risente delle trasfusioni, della reticolocitosi e della contaminazione da parte di altri elementi corpuscolari (leucociti e piastrine). Inoltre, può apparire ridotto anche in coloro che sono portatori della malattia [il deficit di PK è una malattia autosomica recessiva, N.d.R.]. Il test genetico, invece, va alla ricerca di almeno due delle circa 300 mutazioni patogenetiche associate alla malattia ed è necessario per confermare la diagnosi. Tuttavia, qualora si individui una variante di significato incerto, il test genetico deve essere accompagnato dal dosaggio enzimatico e da ulteriori indagini genetiche più approfondite”. Perciò i due test, enzimatico e genetico, sono entrambi importanti e, in certe situazioni, non mutuamente esclusivi. La diagnosi di PKD - come di altre malattie rare - è un processo a più stadi che comincia dall’esame obiettivo e dai test di primo livello (come l’emocromo) per procedere, a seconda delle disponibilità del laboratorio, con il dosaggio enzimatico e la ricerca delle mutazioni, i quali possono essere vicendevolmente integrati nei casi più dubbiosi. “Per tal ragione, la diagnosi del deficit di PK deve essere svolta da personale qualificato che sappia interpretare in maniera corretta i risultati degli esami, anche nelle situazioni più sfumate”, afferma l’immunologa milanese, che su questi temi, lo scorso anno, ha tenuto su invito una presentazione educazionale alla European Hematology Association, a Madrid, e alla Società Italiana di Ematologia.
IL MONITORAGGIO DELLE COMPLICANZE
Un capitolo sostanzioso delle nuove linee guida è dedicato al monitoraggio della malattia e alle sue eventuali complicanze, come sovraccarico di ferro, squilibri della densità ossea e problematiche endocrine. “Il sovraccarico di ferro è la prima complicanza da controllare perché può essere correlata alle trasfusioni con cui si cura l’anemia, oppure può essere una conseguenza stessa della malattia”, precisa Barcellini. “Perciò, le linee guida suggeriscono di eseguire gli esami del pannello del ferro (ferritina, sideremia e transferrina) per monitorare l’accumulo di ferro nell’organismo ed evitare complicanze. In particolare, concentrazioni di ferritina al di sopra di 500 ng/mL devono indurre il medico a richiedere esami di secondo livello, tra cui la risonanza magnetica epatica e cardiaca, i cui risultati saranno utili a capire la necessità di intraprendere una terapia ferro-chelante”. Infatti, tra le complicazioni del sovraccarico di ferro ci sono malattie epatiche anche gravi, fra cui cirrosi e, più raramente, epatocarcinoma. Le problematiche a cui vanno incontro le persone con deficit di PK includono anche l’osteoporosi (si raccomanda un dosaggio routinario della vitamina D e, nei pazienti al di sopra dei 18 anni, l’esecuzione di una densitometria ossea). “Il confronto tra gli esperti ha altresì portato in primo piano la necessità di un monitoraggio endocrinologico di tutti i pazienti”, afferma Barcellini. “Come nel caso della talassemia, nel PKD le endocrinopatie rappresentano una problematica seria, in special modo in età pediatria”, precisa Barcellini.
LA TERAPIA
La splenectomia e la terapia trasfusionale rimangono le due storiche opzioni di trattamento dell’anemia associata al deficit di PK ma, negli ultimi anni, l’armamentario terapeutico a disposizione degli ematologi si è allargato grazie all’introduzione degli attivatori dell’enzima piruvato chinasi, fra cui mitapivat, un farmaco che va assunto per via orale (cosa che migliora notevolmente l’aderenza terapeutica rispetto alle trasfusioni, specie nei più giovani). Secondo i risultati degli studi clinici finora condotti, la somministrazione di mitapivat è in grado di determinare un netto rialzo dei livelli di emoglobina mantenendo un robusto profilo di sicurezza, con effetti benefici prolungati sul paziente. “A Milano abbiamo seguito 13 pazienti in trattamento con questo farmaco che, attualmente, in Italia è disponibile solo per uso nominale, dal momento che è in corso di discussione la rimborsabilità da parte di AIFA”, chiarisce Barcellini. “Il centro del Ca’ Granda ha preso parte allo studio DRIVE PK, per la ricerca della dose più efficace da somministrare ai pazienti, poi allo studio randomizzato e controllato con placebo ACTIVATE, condotto su pazienti adulti non trasfusione-dipendenti, e infine allo studio ACTIVATE-T, che ha coinvolto adulti che ricevono regolarmente trasfusioni”. Secondo le nuove linee guida, la somministrazione di mitapivat è raccomandata in tutti i pazienti con deficit di PK che presentano anemia e che non hanno due mutazioni genetiche missenso (situazione che rende l’enzima PK poco funzionante). “Si tratta di un farmaco molto valido, che sta funzionando bene sulla gran parte dei malati”, afferma Barcellini. “È il primo di una lista di attivatori allosterici dell’enzima piruvato chinasi in fase di studio: molecole che, in futuro, contribuiranno a cambiare la gestione della malattia. Inoltre, per i pazienti che non rispondono adeguatamente a questo trattamento si attende l’arrivo della terapia genica, che ad oggi è ancora in fase di sviluppo”.
GESTIONE DELLA MALATTIA IN GRAVIDANZA
Infine, le linee guida aggiornate hanno dedicato uno spazio particolare alla popolazione di pazienti pediatrici con deficit di PK e alle donne con malattia che cercano una gravidanza, le quali dovrebbero essere sempre valutate e seguite nel contesto di un gruppo multidisciplinare. “Mitapivat non è stato approvato per le donne in gravidanza”, precisa Barcellini. “Pertanto, durante questo delicato periodo della vita serve un monitoraggio ancora più stretto, soprattutto dell’anemia e di altre eventuali complicazioni. È un risvolto relativamente nuovo della malattia, per il quale sono quindi necessari ulteriori studi”.
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