APDS, intervista al prof. Lougaris
Professor Vassilios Lougaris

Intervista a Vassilios Lougaris, Ricercatore Medico e Professore ordinario in Pediatria presso il Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali dell’Università di Brescia

La sindrome da attivazione di PI3K-delta (APDS) è una rara immunodeficienza primaria che spesso è diagnosticata con ritardo, a causa della grande variabilità dei sintomi. Eppure riconoscerla precocemente, anche nei primi anni di vita, è essenziale per avviare un percorso di cura adeguato. Appartenente alla famiglia degli errori congeniti dell’immunità, l’APDS si manifesta nei bambini con infezioni ricorrenti delle vie respiratorie, come bronchiti, polmoniti e otiti, spesso associate a broncospasmo resistente alle terapie. Alla base della malattia c’è una ipogammaglobulinemia, cioè una carenza di anticorpi che compromette la difesa immunitaria. Ciò che distingue l’APDS da altre forme di immunodeficienza è la sua natura duplice, che unisce immunodeficienza e immunodisregolazione.

Alla base della malattia c’è un’alterazione nella via PI3K (fosfatidilinositolo 3-chinasi), che comprende diverse subunità, alcune regolatorie, altre catalitiche”, spiega Vassilios Lougaris, Ricercatore Medico e Professore ordinario in Pediatria presso il Dipartimento di Scienze Cliniche e Sperimentali dell’Università di Brescia. “Alcune di queste subunità sono particolarmente espresse nei globuli bianchi, in particolare linfociti e leucociti. Nel caso dell’APDS, i linfociti sono le cellule più colpite. Le mutazioni possono interessare due subunità principali, la P110-delta, una subunità catalitica che, a causa di una mutazione monoallelica, diventa iperattiva, e la P85-alfa, una subunità regolatoria, dove invece si verifica una “loss of function”, cioè una perdita di funzione che impedisce il controllo dell’attività enzimatica. In entrambe le situazioni, il risultato è che la via PI3K resta sempre attiva, costantemente “accesa”. Ciò porta a senescenza cellulare, esaurimento immunologico, ridotta produzione di anticorpi e, quindi, a tutti i sintomi tipici della malattia”.

Prof. Lougaris, quando dovrebbe sorgere il sospetto diagnostico e quali strumenti ci sono per confermare la diagnosi?

“Il fenotipo è molto variabile. La forma classica si presenta con linfoadenopatie ricorrenti, cioè linfonodi o linfoghiandole che si ingrossano anche per motivi banali, ingrossamento della milza, malessere generale ed episodi infettivi ripetuti, soprattutto a carico delle vie respiratorie. Una situazione che, di per sé, può essere frequente anche nei bambini piccoli. Ogni volta che si ha un’infezione, ad esempio a livello faringeo, i linfonodi si gonfiano e poi, normalmente, si sgonfiano. In questi pazienti, invece, la linfoadenopatia persiste e spesso sono indirizzati nei centri di oncoematologia per escludere linfomi, leucemie e altre patologie simili. Questo vale sia per i più piccoli, sia per gli adulti. Quando il medico, che sia il medico di base, il pediatra o un altro specialista, prescrive qualche esame, già i primi risultati ematici mostrano qualcosa di particolare, ci sono molti “asterischi” negli esami del sangue. Tipicamente, questi pazienti sviluppano una linfopenia progressiva, cioè la conta dei linfociti si abbassa. E se si analizza meglio come sono fatti questi linfociti, si trovano diverse alterazioni, alcune delle quali sono proprie della patologia. Già nei test di base si possono notare linfociti con valori anomali. Se poi si procede con il dosaggio delle immunoglobuline, cioè degli anticorpi sierici, in circa la metà dei casi si trovano valori molto bassi, perché i linfociti non funzionano correttamente e quindi non riescono a produrre anticorpi. Questa, appunto, è la forma classica. Poi ci sono molte altre forme, che possono esordire più tardi, non necessariamente in età pediatrica. A volte i primi segni si manifestano nei giovani adulti, intorno ai 20 o 25 anni, spesso con caratteristiche che ricordano i quadri di sospetto linfoma. Si fa tutto l’inquadramento ematologico, che però risulta negativo e a quel punto è coinvolto l’immunologo. Altre volte, invece, non c’è nulla di tutto questo. Si scopre solo una ipogammaglobulinemia, cioè bassi livelli di anticorpi, che emerge magari a 30 o 40 anni. Insomma, è un quadro davvero molto variabile. Ma la prima cosa è sapere che la APDS esiste. Solo così si può riconoscere e andare a cercare. È un dettaglio solo in apparenza, in realtà è fondamentale”.

Dai primi sintomi, che tipo di percorso affronta un paziente e quali sono gli ostacoli che portano a diagnosi tardive?

“Il problema è proprio questo, spesso si arriva a una diagnosi tardiva. Bisogna considerare che la malattia è stata descritta per la prima volta solo dodici anni fa. Molti dei primi casi riportati negli articoli scientifici erano pazienti con una storia clinica molto lunga alle spalle. Alcuni erano già stati sottoposti a trapianto di midollo, avevano 40 o 50 anni. Questo fa capire quanto il ritardo nella diagnosi genetica inizialmente dipendesse proprio dal non sapere dell’esistenza di questa malattia. Poi, una volta descritta, è chiaro che non tutti i medici ne sono a conoscenza. Così come non tutti conoscono ogni tipo di leucemia, per fare un paragone. Se la persona, piccola o adulta, non è inviata a un centro con una certa esperienza in immunologia, rischia di rimanere per anni in una “zona grigia”, con sintomi che non trovano spiegazione. Ciò significa subire complicanze, accumulare danni che spesso diventano irreversibili. Un altro aspetto è che la diagnosi di questa patologia è genetica, serve un centro che non solo possa eseguire i test genetici, ma anche interpretarli correttamente”.

A Brescia è attivo un centro specializzato?

Sì, noi siamo uno dei centri che si occupano di questo tipo di diagnosi. Con le malattie genetiche, il punto non è solo trovare il gene. Quando si scopre una nuova mutazione, come nel caso dei geni PIK3CD o PIK3R1, coinvolti nella APDS, si pensa che il problema è risolto. Non è così semplice. Tutti noi abbiamo circa 13.000 geni e tutti abbiamo mutazioni, ma non tutte le mutazioni significano automaticamente malattia. Bisogna capire quali mutazioni sono patogenetiche e quali invece sono varianti innocue. Quando si fa l’analisi genetica, ci sono varianti classificate come VUS, cioè “variant of uncertain significance” (variante di significato incerto). Vuol dire che sì, c’è una mutazione, ma non è possibile stabilire con certezza se quella mutazione sia realmente causa della malattia oppure no. Ecco, in questi casi è possibile eseguire un test funzionale sui linfociti del paziente. Si va a verificare se quelle cellule sono iperattive, che è una delle caratteristiche tipiche della patologia. La mutazione, infatti, rende i linfociti iperattivi, li fa lavorare troppo e, alla lunga, si esauriscono, perdono la capacità di combattere le infezioni e generano tutte le complicazioni associate alla malattia”.

Qual è l’impatto dell’APDS sulla vita dei pazienti e quali criticità si incontrano nella gestione clinica della malattia?

“All’inizio, quando la APDS è stata descritta, i pazienti che oggi sappiamo avere questa diagnosi erano etichettati in modi diversi. A ciascuno era stata attribuita una condizione “nota”: immunodeficienza comune variabile complicata, linfoproliferazione, ipogammaglobulinemia, bronchiectasie, problemi intestinali, malattie infiammatorie croniche dell’intestino e così via. È chiaro che, quando non sai con cosa hai a che fare, intervieni in modo empirico, un po’ di cortisone, un po’ di altro, provi a vedere cosa funziona. Non agisci in modo mirato, perché non conosci bene cosa sta succedendo nel sistema immunitario. L’unico farmaco, oltre al cortisone, non privo di effetti collaterali, che si è dimostrato efficace è stato il sirolimus (o rapamicina), un farmaco immunosoppressore che si usa soprattutto nel post-trapianto d’organo. Riesce a controllare alcuni sintomi, ma non tutti. La vera svolta, quello che possiamo definire un “game changer”, è arrivata con il leniolisib, una molecola specifica per la APDS. Abbiamo pazienti che sono entrati nei trial clinici o hanno avuto accesso al farmaco in uso compassionevole e sono rinati. Tutti i sintomi di cui abbiamo parlato finora sono spariti. È stato qualcosa di incredibile, non pensavo fosse possibile. Il leniolisib è un inibitore specifico proprio della P110 delta, una vera e propria terapia su misura che agisce solo dove serve. Un approccio molto preciso e promettente”.

Ci sono particolari controindicazioni in merito all'uso di leniolisib?

Per il momento no. Negli Stati Uniti il farmaco è già stato approvato dalla FDA nel 2023 per i pazienti dai 12 anni in su. In Europa è ancora in fase di approvazione da parte dell’EMA, ma lo stiamo già utilizzando grazie al supporto della dell’azienda farmaceutica. Non risultano particolari effetti collaterali; stanno tutti benissimo, al punto che a volte si dimenticano persino di venire ai controlli semestrali. L’unica cosa da tenere presente, come accade con tutte le terapie nuove, è che non sappiamo ancora bene cosa possa comportare in caso di gravidanza”.

Leniolisib è stato approvato anche nel regno Unito, come primo trattamento per la sindrome da attivazione della fosfoinositide 3-chinasi delta (APDS) ad essere autorizzato per l’uso nel Servizio Sanitario Nazionale (NHS), a partire da marzo 2025.

Il leniolisib può essere considerato il trattamento di elezione per la APDS?

Direi proprio di sì, ma ad oggi non è automaticamente disponibile per tutti. Come dicevo, in Europa non è ancora autorizzato, per cui seguiamo percorsi alternativi come l’uso compassionevole. Serve però che il medico curante compili la documentazione, faccia richiesta al comitato etico di riferimento e, a quel punto, si contatta la ditta produttrice. Lo sponsor valuta il caso e, se approva, fornisce il farmaco. Una volta avviato, il percorso si rinnova quasi in automatico ogni sei mesi. Così abbiamo fatto con i nostri pazienti che partecipavano al trial clinico e così possiamo fare anche oggi per chi sta male o desidera accedere al trattamento prima che sia approvato ufficialmente dalle autorità regolatorie”.

Ci sono limiti per i pazienti che vogliono assumere questo farmaco?

Al momento gli unici criteri sono l’età e il peso. Il farmaco è approvato dai 12 anni in su, ma sono in corso studi clinici anche per i bambini più piccoli, suddivisi in fasce d’età, da 0 a 5 anni e da 5 a 11, per capire quale sia la dose corretta e come somministrarla in sicurezza. Molti di questi piccoli pazienti sono figli di persone già affette dalla malattia, perché si tratta di una forma ereditaria. In questi casi è chiaro che non si vuole aspettare che si sviluppi un linfoma per iniziare la terapia, si preferisce intervenire subito. A causa della linfoproliferazione cronica che caratterizza questa patologia esiste, infatti, un rischio concreto di evoluzione verso forme di linfoma, soprattutto linfomi a cellule B. Molti dei pazienti adulti, quelli che non erano in terapia, hanno già sviluppato uno o più linfomi. Ecco perché questa terapia è così importante. Oltre a riequilibrare il sistema immunitario e migliorare la qualità di vita, la nostra speranza è che possa anche prevenire la trasformazione linfomatosa. È davvero un enorme passo avanti per i pazienti”.

 

 

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