Il prof. Antonio Toscano (Messina): “La consapevolezza che esiste un trattamento ha aumentato la conoscenza della patologia e migliorato la gestione del paziente, anche se permane un certo ritardo diagnostico”
MESSINA – Il 2006, per le persone affette da malattia di Pompe, è stato un anno fondamentale: da allora, infatti, possono essere trattate con la terapia enzimatica sostitutiva a base di alfa glucosidasi ricombinante. Al momento è l'unico trattamento disponibile, lo stesso adottato in tutto il mondo, da assumere ogni 15 giorni per via endovenosa in condizione ambulatoriale. Dopo più di dieci anni dalla sua introduzione, è tempo di bilanci, che per il prof. Antonio Toscano, responsabile del Centro Regionale di Riferimento per le Malattie Neuromuscolari Rare presso l'A.O.U. Policlinico “G. Martino” di Messina, non possono che essere positivi. Se ne è parlato nel corso di un convegno che si è svolto nei giorni scorsi a Parma.
“Il bilancio, per quanto riguarda l'accesso alla terapia e le risposte effettive da dare ai pazienti, è confortante: se la diagnosi è tempestiva, la terapia funziona molto bene nei neonati, ma anche negli adolescenti e negli adulti; anche se la risposta si attenua nel tempo, la loro condizione è pur sempre migliore di quella dei pazienti non trattati”, spiega Toscano.
“Dieci anni fa i bambini affetti morivano entro qualche mese, massimo un anno; ora, se trattati precocemente, possono vivere anche fino ai 18 anni. Dal 2006, in particolare, circa il 50% dei bambini trattati è sopravvissuto, pur con diverse difficoltà nella deambulazione e nella respirazione. Sicuramente, fra altri dieci anni, occorrerà fare un nuovo bilancio, ma ad oggi il risultato terapeutico è senz'altro incoraggiante e la comunità medica italiana ha dato peraltro un importante contributo”.
La malattia di Pompe non è solo una patologia muscolare ma multisistemica, poiché interessa anche il cuore, il sistema nervoso centrale e l'apparato respiratorio: la diagnosi non è facile, perché i sintomi sono molto simili ad altre patologie neuromuscolari. Negli ultimi anni, la consapevolezza che esiste un trattamento ha aumentato la conoscenza della malattia: ora il sospetto di malattia di Pompe è parecchio più frequente e la diagnosi consente una terapia più tempestiva, anche se nel nostro Paese il ritardo diagnostico medio è di circa 5-7 anni.
Secondo il prof. Toscano, i sintomi da considerare per la diagnosi sono l’eccessivo affaticamento, i disturbi di forza dei muscoli scapolari, assiali e pelvici ed i disturbi respiratori, spesso uniti ad alterati esami di laboratorio che evidenziano l'aumento della CK (creatinchinasi) nel sangue. “I casi che affrontiamo sono tutti molto simili: i pazienti arrivano da noi con tutt'altra ipotesi diagnostica, hanno difficoltà a svolgere normalmente attività motorie quali salire le scale o portare pesi a cui, spesso tardivamente, si aggiungono i problemi respiratori con particolare riguardo al muscolo diaframmatico, scarsamente funzionante. Quanto più la terapia viene avviata precocemente, tanto più si possono modificare questi disturbi ed ottenere un miglioramento della qualità di vita dei pazienti”.
C'è però un ostacolo: il farmaco alfa glucosidasi è efficace ma molto costoso. Per questo motivo la comunità medica internazionale ha deciso di darsi delle regole per evitare la somministrazione inadeguata o l'eccessivo ritardo nella somministrazione: “Proprio l'anno scorso – precisa il prof. Toscano – durante una “Consensus conference” organizzata dall’European Pompe Consortium (EPOC), abbiamo aggiornato le raccomandazioni riguardanti l’inizio del trattamento”.
“Pertanto, poiché il costo del farmaco comporta un impegno economico importante a livello nazionale, occorre considerare due fatti: non tutti i pazienti con malattia di Pompe, se presintomatici, hanno necessità di essere trattati; e non abbiamo comunque sufficienti dati per capire se sia utile trattare tutti dall'inizio, già prima che si manifestino i sintomi”, continua il prof. Toscano. “In Italia c'è molta attenzione e flessibilità riguardo questi aspetti, mentre altri Paesi sono più rigidi nella somministrazione di farmaci orfani: la Svizzera, ad esempio, qualche tempo fa ha abolito questa terapia per due anni per poi riammetterla con gravi danni ai pazienti”.
E lo screening neonatale potrebbe essere utile per questa patologia? “Sicuramente, in particolar modo per le forme più gravi, ma dovrebbe essere gestito con intelligenza”, conclude il professore. “Occorre tener conto, infatti, che la malattia può manifestarsi al primo giorno di vita, così come esordire tardivamente in età adulta, in una forma meno severa ma comunque invalidante”.
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