Uno studio pilota americano suggerisce l’opportunità di utilizzare la terapia enzimatica sostitutiva a dosi più elevate e con maggior frequenza per massimizzarne i benefici clinici
La malattia di Pompe è una condizione genetica rara e debilitante che ha un impatto significativo su migliaia di bambini e adulti in tutto il mondo (circa 10.000 individui in totale, di cui 300 in Italia). Tra le varianti di questa grave patologia neuromuscolare, la forma infantile, nota come IOPD (Infantile-Onset Pompe Disease), si distingue per la sua aggressività e per il rapido deterioramento delle condizioni cliniche dei piccoli pazienti: per questo motivo, un intervento precoce e mirato è fondamentale per migliorare le loro possibilità di sopravvivenza e preservare la loro qualità della vita.
Un recente studio americano, pubblicato lo scorso dicembre sulla rivista Molecular Genetics and Metabolism Reports, propone un approccio innovativo, chiamato terapia a dose intensiva (DIT), come potenziale soluzione per affrontare le sfide cliniche della IOPD. Questo trattamento si basa sull’utilizzo della terapia enzimatica sostitutiva (ERT) indicata per la patologia ma somministrata a dosi più elevate e con maggior frequenza rispetto agli standard tradizionali. L’obiettivo è quello di massimizzare i benefici clinici della ERT riducendo, al contempo, la formazione di anticorpi anti-rhGAA, che rappresentano una delle principali complicanze correlate al trattamento della malattia.
LA PATOLOGIA
La malattia di Pompe è una patologia neuromuscolare rara appartenente al gruppo delle glicogenosi. È causata da mutazioni nel gene GAA, situato sul cromosoma 17, che codifica per l’enzima alfa-glucosidasi acida (GAA), essenziale per la degradazione del glicogeno nei lisosomi cellulari. Nei pazienti affetti da malattia di Pompe, l’assenza o la ridotta attività dell’enzima GAA porta all’accumulo progressivo di glicogeno nei tessuti, in particolare nei muscoli scheletrici, cardiaci e respiratori. Nella forma della patologia a esordio infantile la compromissione multiorgano causata da questo deficit enzimatico conduce rapidamente a gravi problematiche, come l’insufficienza cardiaca e respiratoria, con una prognosi spesso infausta nei primi anni di vita.
Attualmente, il trattamento della malattia si basa sulla terapia enzimatica sostitutiva (ERT), che prevede la somministrazione endovenosa cronica di una forma ricombinante dell’enzima alfa-glucosidasi acida (rhGAA). Tuttavia questa terapia presenta alcune criticità, tra cui la possibilità che il sistema immunitario del paziente sviluppi anticorpi anti-rhGAA, che riducono drasticamente l’efficacia del trattamento. Proprio in risposta a questa problematica e per ottimizzare i risultati clinici della ERT, un team di ricercatori dell’Università del Minnesota, guidato dalla dottoressa Jeanine R. Jarnes, ha sperimentato un nuovo protocollo di terapia a dose intensiva (DIT).
LO STUDIO
Rispetto alla ERT convenzionale, che prevede infusioni quindicinali di 20mg/kg di enzima ricombinante, la terapia a dose intensiva (DIT) utilizza una maggior quantità di farmaco, 40 mg/kg, suddiviso in tre infusioni settimanali. Questo schema terapeutico è stato progettato con l’obiettivo di migliorare i risultati clinici (la dose prevista è circa quattro volte superiore a quella raccomandata dalla Food and Drug Administration statunitense) e contrastare la formazione di anticorpi neutralizzanti mediante un’esposizione più frequente al farmaco, evitando così che il sistema immunitario lo ‘percepisca’ come estraneo all’organismo e lo combatta.
La prima bambina trattata con la DIT ha iniziato il protocollo a soli 13 giorni di vita, tempistica cruciale per ottenere il massimo beneficio dalla terapia. La dose del farmaco è stata gradualmente aumentata da 15mg/kg fino all’obiettivo di 40mg/kg, raggiunto entro i primi sei mesi dall’inizio della terapia. Oggi, dopo sette anni, la bimba mostra uno sviluppo motorio e cognitivo perfettamente in linea con i parametri di riferimento per la sua età e partecipa attivamente alle attività scolastiche e sociali: un risultato eccezionale rispetto alla media dei bambini affetti da questa patologia e trattati in maniera tradizionale. Inoltre, non sono stati rilevati anticorpi neutralizzanti anti-rhGAA, aspetto fondamentale per il mantenimento dell’efficacia del trattamento nel tempo. Parallelamente, si è osservata una regressione dell’ipertrofia cardiaca biventricolare, una delle manifestazioni cliniche più severe della malattia di Pompe a esordio infantile, e una normalizzazione dei principali biomarcatori ematici, come la creatinchinasi (CK) e le transaminasi epatiche, segno di un miglioramento complessivo della funzione muscolare e metabolica.
CRITICITÀ E PROSPETTIVE FUTURE
Se confermata su un numero più ampio di pazienti, la terapia a dose intensiva potrebbe rivoluzionare il trattamento della malattia di Pompe, rappresentando una svolta sia per i pazienti CRIM-positivi, come la piccola partecipante allo studio, sia per quelli CRIM-negativi: mentre i primi producono una forma non funzionale dell’enzima GAA, i secondi non lo producono affatto e sono quindi particolarmente predisposti a sviluppare anticorpi neutralizzanti anti-rhGAA. L’adozione di una strategia terapeutica intensificata potrebbe prevenire lo sviluppo di questi anticorpi anche nei pazienti CRIM-negativi, aumentando l’efficacia dell’ERT e garantendo una migliore qualità della vita.
Nonostante il successo clinico ottenuto, lo studio americano sulla DIT presenta alcune criticità che non possono essere ignorate. L’utilizzo di dosi più alte di enzima ricombinante, infatti, comporta un aumento significativo dei costi del trattamento, cosa che potrebbe limitare l’accesso a questa terapia, soprattutto nei Paesi sprovvisti di copertura sanitaria universale. Inoltre, la necessità di infusioni frequenti - tre volte a settimana - della durata di circa cinque ore, potrebbe rappresentare un peso considerevole per i pazienti e per le loro famiglie, influenzando negativamente la loro quotidianità. Infine, lo studio pilota ha coinvolto una sola paziente CRIM-positiva, il che significa che i risultati, per quanto promettenti, dovranno essere confermati attraverso ricerche più ampie e su una popolazione di pazienti diversificata. In particolare, sarà fondamentale verificare l’efficacia della DIT nei pazienti CRIM-negativi e monitorare eventuali effetti collaterali legati alla maggior frequenza delle infusioni.
Tuttavia, se i risultati di questo studio pilota verranno confermati da future sperimentazioni, la terapia a dose intensiva potrebbe affermarsi come un’importante possibilità terapeutica per la malattia di Pompe a esordio infantile, contribuendo a ridisegnare la prognosi nei neonati affetti da questa grave patologia e offrendo loro una nuova prospettiva, così come è successo alla piccola pioniera del Minnesota.
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