Le aspettative di tanti sono proiettate su questo strumento di prevenzione ma il suo sviluppo non è scontato: a spiegarlo è il prof. Andrea Crisanti (Padova)
Da un pugno di mesi, tutti noi stiamo imparando a leggere la ‘situazione Coronavirus’ come un qualcosa in continua evoluzione. In tal senso, la figura geometrica della curva si adatta bene al sentimento popolare perché, all’iniziale impennata di timore ha fatto seguito la frustrazione e, adesso, la sensazione più vivida per tutti è quella di una rassegnata attesa. Attesa di un ritorno alla normalità o dello strumento che lo conceda, come ad esempio un vaccino contro il virus SARS-CoV-2. Ma quello che, parafrasando la storia francese, potremmo rinominare l’affaire vaccino, è un tema che divide l’opinione popolare e, soprattutto, i ricercatori.
Nei giorni scorsi, la rivista Science ha dato spazio ai risultati di un gruppo di ricerca cinese che afferma di aver eseguito con successo i primi test su un modello animale di un vaccino contro il SARS-CoV-2 ricavato da virus inattivati e purificati: si tratta di uno degli otto che, sul sito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, figurano in valutazione clinica. Ne esistono, però, almeno un altro centinaio in fase pre-clinica, che forse non arriveranno mai alla sperimentazione sull’uomo. A questo punto viene da chiedersi per quale ragione, con una tale vastità di proposte e con i laboratori e le aziende di tutto il mondo impegnate in una corsa allo sviluppo di un vaccino, si continui a parlare di tempistiche non inferiori a 12-18 mesi.
Per cercare di rispondere adeguatamente a questa domanda occorre partire dalle attuali conoscenze sul sistema immunitario e dalle modalità con cui l’organismo fronteggia le infezioni: esistono due tipi di risposta immunitaria, una innata e una adattativa, e quest’ultima è quella coinvolta nella produzione di anticorpi. I vaccini sono preparazioni nate allo scopo di provocare una risposta immunitaria che uccida il patogeno e ciò si realizza, tra le altre cose, facendo sì che l’esposizione a determinati antigeni susciti una certa produzione di anticorpi. Al momento, esistono almeno otto modi di produrre un vaccino contro il SARS-CoV-2 e comprendono il ricorso sia a virus attenuati o inattivati (come nel caso dello studio clinico recentemente apparso sulle pagine di Science) sia alla genetica, attraverso l’impiego di vettori virali (la strada seguita anche dalla biotech italiana Advent) oppure di frammenti di acidi nucleici (DNA e RNA) o proteine specifiche da essi derivate.
“L’investimento nei vaccini è fondamentale, dal momento che essi si sono rivelati lo strumento più efficace, in termini di costi e implementazione, per combattere una malattia infettiva”, spiega il prof. Andrea Crisanti, direttore del Laboratorio di Virologia e Microbiologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Padova. “Tuttavia, non è possibile sviluppare vaccini contro tutte le malattie infettive. Ad esempio, non abbiamo ancora un vaccino contro l’HIV e nemmeno contro quello dell’epatite C. Non siamo riusciti a trovare nemmeno un vaccino contro la malaria, e quello contro la tubercolosi è vecchio di cinquant’anni, ha notevoli problemi e nessuno è mai riuscito a migliorarlo. In questo momento vengono riposte troppe aspettative in un vaccino contro il SARS-CoV-2 e ciò non può non destare preoccupazione, dal momento che la corsa al suo sviluppo è un percorso accidentato, molto lungo e, soprattutto, non necessariamente coronato dal successo”.
In generale, infatti, sono meno del 10% i farmaci che, seppur entrati in sperimentazione clinica, vengono poi approvati dagli enti regolatori come la Food and Drug Administration (FDA) o l’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA), e questo è un dato che offre un’idea chiara della difficoltà di ottenere un vaccino contro una certa patologia: quand'anche sia completato il percorso di sperimentazione clinica (un iter in tre fasi da cui devono emergere in modo chiaro e inconfutabile la sicurezza e l’efficacia del prodotto) c’è da considerare l’autorizzazione al commercio, che può richiedere anche un anno e che viene rilasciata dalle agenzie regolatorie, le quali hanno il compito di valutare l’impatto del vaccino su una popolazione sana. Infatti, contrariamente ai farmaci prodotti per la cura di varie patologie, i vaccini sono preparati che si somministrano a individui sani e l’attestazione della loro sicurezza è dunque un aspetto cruciale. Infine, una volta che il vaccino sia approvato, bisogna poi essere in grado di produrlo in milioni di dosi. Per poter fare ciò, servono officine specializzate la cui costruzione esige anni, oltre che ingenti riserve economiche.
Tutto questo, però, non deve essere motivo di scoramento, anche perché la ricerca condotta sui ceppi virali responsabili di precedenti epidemie, come la SARS e la MERS, sta rivelando la sua utilità: il virus SARS-CoV-2 è identico all’80% al suo predecessore, il virus SARS-CoV, e questo mette gli scienziati in una condizione di vantaggio in termini di sviluppo di test diagnostici e - speriamo - anche di un vaccino. In particolar modo, la proteina arpione (spike) con cui il virus si lega al recettore ACE2 per entrare nel nostro organismo è al centro dell’interesse sia per lo sviluppo di vaccini tradizionali che di vaccini genetici.
“I vaccini genetici sono più complessi di quelli tradizionali. Nel senso che sono più facili da sintetizzare dal punto di vista molecolare e biochimico ma immunologicamente possono risultare meno efficaci”, precisa Crisanti. “Al momento, tuttavia, il vaccino rimane solo un’ipotesi, mentre la tracciabilità di massa è l’unica arma concreta di cui disponiamo. La strategia messa in atto a Vò Euganeo ha ispirato la reazione successiva della Regione Veneto, che ha compreso l’importanza di ricorrere al tampone non solo quale strumento di diagnosi, ma anche di sorveglianza attiva, per identificare tutti coloro che avevano avuto contatti con persone infette. Ciò ha consentito di individuare chi trasmetteva l’infezione e ha evitato che l’Ospedale di Padova, intorno al quale gravitano dalle 35-40mila persone, diventasse un focolaio d’infezione, come invece è accaduto ad Alzano Lombardo. Se ciò fosse successo, l’intera Regione Veneto si sarebbe trovata in ginocchio”.
“Abbiamo fatto in modo che il virus non entrasse in ospedale come elemento di contagio ma solo come cura e, di conseguenza, che non vi uscisse mai”, riprende Crisanti. “Abbiamo quindi applicato una capillare sorveglianza del territorio, operando in modo tale che chiunque avesse il sospetto di essere entrato in contatto con una persona infetta, si potesse presentare in ospedale per eseguire il tampone, tanto che solo nella città di Padova, su 210mila abitanti, abbiamo fatto 140mila tamponi. Anche gli altri ospedali in regione hanno da subito adottato precauzioni in modo da non essere essi stessi focolai e questo ha avuto un impatto evidente sulla curva dei contagi in Veneto che, all’inizio della pandemia, era uguale a quella della Lombardia”. In attesa di un vaccino è pertanto fondamentale puntare sulla rigorosità d’esecuzione dei test e sulla tracciabilità dei contatti, oltre che su un uso responsabile e attento dei dispositivi di protezione individuale. In questo modo, indipendentemente quello che la ricerca produrrà e dalle tempistiche con cui lo farà, sarà possibile tornare al più presto a uno stato di normalità.
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