Presentate al Congresso  “Advanced Reproductive Medical Treatments” di Roma

È oggi possibile eseguire una diagnosi genetica preimpianto dell’embrione attraverso la Blastocentesi, ossia l’analisi del liquido contenuto nella cavità della blastocisti, l’ultimo stadio a cui arriva l’embrione prima dell’impianto in utero; questa tecnica permette di indagare in maniera non invasiva sul DNA embrionale per individuare eventuali malattie genetiche o malformazioni cromosomiche.

È quanto emerge dallo studio condotto dal Dottor Bulletti in collaborazione con il Dottor Palini, il Dottor Galluzzi e il Professor Magnani, pubblicato su Reproductive BioMedicine Online1 e presentato il 27 settembre a Roma nel corso del Congresso Scientifico Internazionale ADVANCED REPRODUCTIVE MEDICAL TREATMENTS, organizzato da Carlo Bulletti - Direttore della Unità Operativa di Fisiopatologia della Riproduzione dell’Ospedale Cervesi di Cattolica.

“La Blastocentesi - ha affermato Carlo Bulletti - rappresenta una tecnica che esclude il tradizionale e invasivo prelievo di cellule embrionali, per il quale non sono  stati ancora fugati i dubbi circa la potenziale nocività. Attualmente- prosegue Bulletti - circa il 2-3% dei nuovi nati avviene mediante tecniche di riproduzione assistita, una cifra che testimonia la diffusione della PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) e impone un affinamento delle tecniche diagnostiche. A oggi, infatti, il principale obiettivo della comunità scientifica internazionale è rivolto a migliorare l’efficienza dell’impianto embrionale per ridurre le gravidanze gemellari o plurigemellari, consentendo di trasferire in utero un solo embrione dotato di altissime potenzialità di impianto, perché sano”.

L’altro aspetto molto innovativo trattato nel corso del Congresso riguarda un’altra tecnica non invasiva: la diagnosi genetica prenatale da sangue periferico materno, ossia lo studio delle cellule fetali presenti nel circolo ematico delle donne in gravidanza. Si tratta di una tecnica priva di rischi per il feto, e dunque potenzialmente utilizzabile a tutto campo, senza limitarne l’applicazione solamente alle coppie a rischio. L’argomento, al centro dell’interesse della comunità scientifica da diverso tempo, si è scontrato finora con un significativo ostacolo: l’estrema rarità delle cellule fetali circolanti e il loro esiguo numero per unità di volume.

Il team di ricercatori guidato da Nicolò Manaresi, Direttore tecnico Silicon Biosystems S.p.A, ha messo a punto un sistema per la diagnosi genetica prenatale non invasiva che consente di individuare e isolare le cellule fetali pure al 100% e apre dunque alla reale possibilità di condurre su di esse l’analisi genetica.

“Il sistema – ha spiegato Nicolò Manaresi - si basa su un chip microelettronico che intrappola ed isola in modo digitale le cellule desiderate, muovendole sotto controllo software. Per identificare le cellule desiderate vengono utilizzati degli anticorpi fluorescenti; potremmo definirle "bandierine verdi" che si attaccano in modo selettivo alle cellule fetali e "bandierine rosse" che si attaccano alle cellule materne. Il nostro compito, adesso, è continuare a lavorare per aumentare l’efficienza di queste "bandierine" nel distinguere le cellule fetali da quelle materne e poter, quindi, introdurre la metodica nella routine clinica”.

Secondo i dati dell’ultima Relazione del Ministero della Salute al Parlamento, presentata a giugno 2013, si conferma il trend positivo per l’accesso alle tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita, mentre incide negativamente sui risultati delle tecniche stesse l’età media delle donne che vi ricorrono, passata dai 36,3 del 2010 ai 36,5 nel 2011.

Emerge dunque l’esigenza di una diagnosi adeguata per le coppie che accedono alle tecniche di PMA, oltre che una prevenzione primaria delle cause dell’infertilità e una maggiore informazione sin da giovani.



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