Su The Lancet Haematology sono stati pubblicati i risultati di uno studio clinico che ha valutato il trattamento con decitabina più cedazuridina e venetoclax
In un individuo in età avanzata sintomi generici come la stanchezza, l’affaticabilità e la perdita di peso rischiano di passare in secondo piano fino a quando non si combinano con altri - quali infezioni ricorrenti o febbre - potenzialmente associati al calo dei globuli bianchi. Se a questi si somma anche la comparsa di petecchie o di lividi in seguito a colpi non particolarmente forti, qualsiasi medico finirà per richiedere l’esecuzione di un emocromo di controllo da cui potrebbe emergere un quadro di citopenia variabile, tipico di una buona fetta di disturbi onco-ematologici tra cui leucemie, patologie mieloproliferative e sindromi mielodisplastiche. Queste ultime, in particolare, sono forme neoplastiche tipiche della cellula staminale ematopoietica ma meno diffuse di altre condizioni; devono essere prontamente identificate in quanto caratterizzate da un certo grado di displasia del midollo osseo.
Il midollo osseo è la sede di produzione dei globuli rossi, dei globuli bianchi e delle piastrine, poiché in esso sono contenute le cellule staminali pluripotenti che si differenziano nelle cellule progenitrici dei più importanti elementi corpuscolari del sangue; pertanto, se non funziona a dovere si vengono a creare gravi anomalie a livello morfologico e subentrano blocchi nella serie produttiva di una o più linee ematopoietiche. Ciò conduce ad anemia (calo dei globuli rossi con successiva astenia e stanchezza diffusa), leucopenia (basso livello dei globuli bianchi) o piastrinopenia (calo delle piastrine). Il più facile esame per certificare questa situazione è l’emocromo, che rappresenta il passo iniziale per la diagnosi di varie condizioni, tra cui le sindromi mielodisplastiche, un gruppo di patologie a rischio di progressione leucemica per cui non esiste una terapia specifica (il trapianto allogenico di midollo è raccomandato solo in una modesta frazione di pazienti). Tuttavia, secondo i risultati di uno studio pubblicato sulle pagine di The Lancet Haematology la situazione potrebbe cambiare grazie a una specifica combinazione di farmaci.
Infatti, un gruppo di oncologi ed ematologi dell’MD Anderson Cancer Center presso l’Università del Texas ha esplorato la possibilità di utilizzare una combinazione di decitabina, cedazuridina e venetoclax negli individui con sindromi mielodisplastiche ad alto rischio o con leucemia mielomonocitica cronica. Ad oggi, decitabina e cedazuridina risultano approvate per il trattamento dei pazienti adulti affetti da leucemia mieloide acuta non idonei alla chemioterapia di induzione standard, mentre venetoclax è indicato in monotoerapia o in combinazione con altri farmaci per il trattamento della leucemia linfatica cronica e, in combinazione con un agente ipometilante, è anch’esso indicato per il trattamento di pazienti adulti con leucemia mieloide acuta non idonei alla chemioterapia intensiva.
In uno studio di Fase I/II durato due anni (2021-2023), i ricercatori statunitensi hanno arruolato 39 pazienti (età mediana: 71 anni, range: 27-94) per valutare la sicurezza e l’efficacia della combinazione di decitabina, cedazuridina e venetoclax, ottenendo un tasso di risposta complessivo del 95% e un tasso di remissione completa del 44%. Si tratta di un risultato interessante, con risposte rapide e importanti, tali da aver indotto alla riflessione circa l’opportunità di introdurre questo nuovo standard di cura per lo specifico gruppo di pazienti affetti da sindromi mielodisplastiche ad alto rischio, che oggi sono trattati soprattutto con la terapia ipometilante, da cui ottengono però tassi di risposta bassi.
Infatti, sulla base delle caratteristiche morfologiche e dei reperti midollari, il sistema di classificazione dell’OMS distingue e classifica le sindromi mielodisplastiche in diverse entità associate a differenti gradi di progressione. La disponibilità di una terapia orale efficace e sicura non solo potrebbe cambiare la prospettiva di cura di quanti fino ad ora non hanno ottenuto risposte soddisfacenti dal trattamento, ma inciderebbe sulla qualità di vita, abbassando la necessità degli accessi ospedalieri e le possibili reazioni avverse di una terapia per iniezione. Infine, studi di questo genere potrebbero spianare la strada ad altre sperimentazioni che, sulla base di una precisa selezione molecolare, potrebbero portare alla creazione di combinazioni terapeutiche di farmaci orali con un’efficacia ancora maggiore.
Attualmente, la diagnosi delle sindromi mielodisplastiche ha inizio dagli esami di laboratorio (oltre all’emocromo si suggerisce il dosaggio della bilirubina, dell’LDH e dell’acido urico) che, insieme all’esame obiettivo, possono orientare la diagnosi. Ma da test più generici il percorso di approfondimento passa per l’aspirato midollare e la biopsia del midollo osseo, utili a inquadrare i diversi tipi di cellule e l’eventuale presenza di forme anomale. A questi esami si aggiungono l’analisi citogenetica e l’immunoistochimica, per una miglior definizione del fenotipo clinico. Le informazioni derivanti dalla medicina di laboratorio sono dunque molto ricche e devono essere elaborate e processate non solo per raggiungere una definizione diagnostica precisa ma anche per effettuare una valutazione prognostica che, nel caso delle sindromi mielodisplastiche, si associa al rischio di progressione, e che può essere usata per impostare la terapia più adatta al singolo paziente.
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