Il dr. Nicola Vianelli (Bologna): "Le opzioni terapeutiche sono la splenectomia, i nuovi farmaci TPO-mimetici e il cortisone"
Bologna – In un organismo sano, in un millimetro cubo di sangue dovrebbero essere presenti da 150mila a 400mila piastrine, elementi del sangue che hanno il compito di contribuire alla coagulazione. Quando il loro numero scende sotto questa soglia si parla di piastrinopenia: lieve-moderata e non allarmante se compresa fra 50 e 150mila, rischiosa se inferiore alle 50mila unità.
Le cause possono essere tante, come ci spiega il dr. Nicola Vianelli, dell'U.O. di Ematologia del Policlinico Sant'Orsola-Malpighi, Università di Bologna: "La piastrinopenia può essere secondaria a infezioni da HIV, da HCV (epatite C) o da Helicobacter Pylori, un batterio molto diffuso, che in circa la metà dei casi provoca una riduzione nel numero delle piastrine. Può essere il primo segnale di una displasia, di un linfoma o di una leucemia acuta, tutte patologie relativamente rare; nella donna fra i 30 e i 40 anni può essere inoltre il segno di una sclerosi sistemica, di una collagenopatia o del lupus".
In altri rari casi, ciò che provoca la riduzione delle piastrine non è una causa esterna ma lo stesso sistema immunitario del paziente, che le distrugge: si parla allora di piastrinopenia immune, o come veniva chiamata in precedenza, porpora trombocitopenica idiopatica o immune (ITP).
“Il paziente piastrinopenico che ha meno di 30-50mila piastrine per millimetro cubo è a rischio di sanguinamento, che può presentarsi con petecchie, ecchimosi, epistassi e gengivorragia, per arrivare agli episodi di emorragia che fanno più paura: quelli cerebrali e del tubo digerente”, sottolinea Vianelli. “Sotto le 20-30mila piastrine il rischio diventa ancora più significativo. La piastrinopenia immune può insorgere a tutte le età, e colpisce leggermente di più la donna; l'incidenza cresce con l'aumentare dell'età, e per gli anziani rappresenta un rischio maggiore a causa delle possibili comorbilità”.
Le opzioni terapeutiche sono diverse a seconda del tempo trascorso dalla nuova diagnosi: la terapia di prima linea si basa sui corticosteroidi. Ci sono due modi diversi di somministrarli, ma non esistono indicazioni su quale sia il migliore: quello adottato solitamente dal dr. Vianelli consiste in 3-4 settimane di prednisone o 6-metil prednisolone ad alto dosaggio, che si scala per 30-40 giorni fino alla sospensione. L'altro metodo prevede il desametasone ad alte dosi per 4 giorni, seguito da un'interruzione di 10 giorni e dalla ripetizione della terapia fino a 3-4 volte.
Questi trattamenti possono essere integrati o meno da un'occasionale trasfusione di piastrine, insieme alle alte dosi di immunoglobuline (che hanno però un effetto temporaneo, di 2-3 settimane). Il 20-30% dei pazienti risponde al trattamento steroideo, mantenendo una conta piastrinica emostaticamente valida, superiore alle 50mila piastrine, anche dopo la sua sospensione.
“Il cortisone, nell'immaginario popolare, è molto temuto: in realtà è un grande medicinale, molto meno tossico di altri farmaci utilizzati più comunemente”, sottolinea l'ematologo. “Certo, gli effetti collaterali ci sono: oltre all'osteoporosi, alla ritenzione idrica, al possibile disordine del metabolismo glucidico nei pazienti più anziani e all'aumento di peso, si ha quello che viene chiamato 'eretismo psicofisico': uno stato di benessere ma anche di agitazione, in cui si dorme poco e si ha molto appetito. Tuttavia, se somministrato nei tempi e nei modi congrui, questi effetti indesiderati possono essere evitati o molto contenuti”.
Per i 7-8 pazienti su 10 che non rispondono al cortisone, si procede con la terapia di seconda linea: in questa fase, detta 'di persistenza', che va dai 3 ai 12 mesi dalla diagnosi, si può somministrare il rituximab, un anticorpo monoclonale anti-CD20 che agisce contro i linfociti B e che ha una potente azione immunosoppressiva per la durata di 6-9 mesi. I pazienti che non reagiscono neppure al rituximab, dopo 12 mesi dalla diagnosi entrano nella fase cronica.
Per loro c'è la strategia più efficace, spesso risolutiva: la splenectomia, ovvero l'asportazione chirurgica della milza. Un'operazione che negli ultimi decenni è stata praticata sensibilmente meno, a favore del rituximab, ma che garantisce una risposta duratura (fino ad oltre i 20 anni) nel 65% dei pazienti. Prima della fase cronica, però, è sconsigliabile procedere con la splenectomia, in quanto c'è una possibilità – seppur molto piccola – che la patologia guarisca spontaneamente.
“Un'ulteriore opzione terapeutica è rappresentata da due 'farmaci cugini', l'eltrombopag (orale) e il romiplostim (sottocutaneo): due TPO-mimetici, ovvero agonisti del recettore della trombopoietina posto su diverse cellule emopoietiche e in particolare sui precursori delle piastrine situati nel midollo osseo”, conclude il dr. Vianelli. “Questi medicinali, che stimolano la produzione delle piastrine, sono molto efficaci: nel 60-70% dei pazienti inducono un aumento significativo delle piastrine, che si mantiene nel tempo in circa la metà dei casi. Tali farmaci si sono dimostrati relativamente sicuri, ma per mantenersi efficaci necessitano di una somministrazione cronica”.
Seguici sui Social