Dalle prime aperture, con la legge sul consenso informato, alle conferme più recenti: un percorso giurisprudenziale che segna i confini dell’aiuto al suicidio in attesa di una normativa nazionale
Il tema del fine vita continua ad alimentare un intenso confronto giuridico, etico e politico. In mancanza di una normativa organica che regoli in modo compiuto le scelte di fine vita, è stata la Corte costituzionale, negli ultimi anni, a delineare i limiti entro cui può ritenersi lecito – e dunque non punibile – l’aiuto alla morte volontaria, nei casi di sofferenza estrema e irreversibile. Attraverso una serie di sentenze, la Consulta ha tracciato un percorso che cerca di conciliare due principi fondamentali: da un lato, la tutela della vita umana come valore costituzionale primario; dall’altro, il rispetto della libertà individuale e del diritto all’autodeterminazione nei momenti più critici dell’esistenza.
Il punto di partenza è rappresentato dalla legge n. 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), che ha sancito il diritto del paziente a rifiutare cure e trattamenti, anche salvavita. Ma è con la nota vicenda giudiziaria legata a Marco Cappato e al suicidio assistito di DJ Fabo in Svizzera che si apre un fronte nuovo: quello dell’aiuto al suicidio all’interno dell’ordinamento italiano.
LA CORTE SOLLECITA IL PARLAMENTO (ORDINANZA N. 207 DEL 2018)
Con l’esito del processo a Marco Cappato per il supporto al suicidio di DJ Fabo in Svizzera (ordinanza n. 207 del 2018, relativa al caso sollevato dalla Corte d’Assise di Milano), la Corte costituzionale ha riconosciuto la necessità di riesaminare, alla luce dei valori costituzionali, l’articolo 580 del Codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio.
La Consulta non dichiara subito l’articolo 580 come incostituzionale, ma rinvia la decisione di un anno, chiedendo al Parlamento di legiferare su casi-limite in cui l’aiuto al suicidio potrebbe risultare legittimo. Il principio è chiaro: non tutti gli aiuti al suicidio sono eguali. Se chi chiede di morire è tenuto in vita da trattamenti sanitari, soffre in modo intollerabile, è affetto da una patologia irreversibile e decide in modo libero e consapevole, allora impedire ogni forma di aiuto potrebbe costituire una violazione dei suoi diritti fondamentali.
LA CORTE SI PRONUNCIA SUI REQUISITI (SENTENZA N. 242 DEL 2019)
Trascorso un anno senza interventi legislativi, la Corte torna sul tema con un’importante sentenza, la n. 242 del 2019, con cui ha stabilito la non punibilità di chi agevola il suicidio di una persona, dichiarando l’illegittimità dell’art. 580 del Codice penale (aiuto al suicidio) nella parte in cui punisce chi agevola il suicidio di una persona che:
• è affetta da una patologia irreversibile con prognosi infausta;
• soffre in modo fisico o psicologico intollerabile;
• è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale;
• è pienamente capace di intendere e volere;
• ha avuto accesso – o ha consapevolmente rifiutato – un percorso di cure palliative.
La Corte inoltre chiarisce che il supporto medico all’atto suicidario deve avvenire sotto il controllo del Servizio Sanitario Nazionale, per evitare abusi e tutelare la dignità del paziente. È un punto di svolta: si delinea per la prima volta un perimetro preciso entro cui l’aiuto al suicidio può ritenersi lecito.
LA CORTE CONFERMA I CRITERI GIÀ STABILITI NEL 2019 (SENTENZA N. 135 DEL 2024)
Con la sentenza n. 135 del 2024, la Corte respinge nuove richieste di ampliamento dei criteri stabiliti nel 2019. In particolare, viene confermato il requisito della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” – ad esempio ventilatori o nutrizione artificiale – come condizione necessaria per accedere al suicidio assistito. Secondo la Corte, questo requisito non è arbitrario, ma serve a distinguere tra situazioni cliniche diverse, garantendo che solo le persone più vulnerabili, e già sottoposte a una medicalizzazione continua, possano legittimamente accedere a tale percorso.
ANCORA UNA VOLTA LA CORTE CONFERMA I CRITERI (SENTENZA N. 66 DEL 2025)
Nel 2025, un’altra questione viene sottoposta alla Corte costituzionale da un giudice milanese, che solleva dubbi sulla legittimità costituzionale dell’attuale perimetro definito dalla Consulta. La Corte, con la sentenza n. 66 del 2025, conferma ancora una volta i criteri esistenti, ribadendo che l’aiuto al suicidio è penalmente non punibile solo nei casi espressamente indicati dalla sentenza del 2019, e che un eventuale ampliamento spetta al legislatore, non ai giudici.
Questa decisione chiude, almeno per ora, il ciclo delle pronunce costituzionali sul tema, senza ulteriori aperture ma con una chiara richiesta alla politica: è tempo per il Parlamento di disciplinare in modo organico una materia così delicata.
L’assenza di una legge nazionale lascia i cittadini in una situazione di incertezza e disparità; numerosi comitati etici territoriali, infatti, si trovano a dover valutare casi complessi in assenza di linee guida uniformi mentre in alcune Regioni come l’Emilia-Romagna e la Toscana sono state approvate normative volte a disciplinare la materia.
Le sentenze della Consulta hanno costruito, passo dopo passo, un argine contro l’arbitrarietà, definendo diritti e limiti in assenza di una cornice legislativa. Questo percorso, pur lasciando irrisolti molti interrogativi, ha garantito almeno una base di tutela per chi affronta sofferenze estreme e scelte irreversibili. Resta ora da capire se il legislatore saprà raccogliere questa eredità, trasformando principi giurisprudenziali in regole chiare e condivise.
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