Roma – “Il sole risplende: non ha altra scelta, nulla di nuovo”. Così Samuel Beckett. Ma a differenza di quanto scriveva del sole il drammaturgo e poeta irlandese, noi dobbiamo scegliere di proteggerci dai suoi raggi. Già, perché se “non usato con cautela”, il sole può provocare danni molto seri alla nostra pelle, fino a causare tumori. Se ne è discusso ieri a Montecitorio nel corso di una conferenza stampa durante la quale sono emersi dati allarmanti: il numero di casi di neoplasie della pelle è in continua crescita in tutti i Paesi del mondo, inclusa l’Italia.

I risultati di un recente studio clinico di Fase II sembrano dimostrare che una terapia con lenvatinib impiegato in combinazione con everolimus nel trattamento di pazienti affetti da carcinoma a cellule renali in fase metastatica, sia in grado di ottenere un significativo miglioramento della sopravvivenza libera da progressione (PFS) rispetto a entrambi i medicinali utilizzati in monoterapia. La notizia è stata pubblicata da Eisai, la società farmaceutica produttrice di lenvatinib.

Una bambina di 9 anni affetta da cordoma - un tipo raro di tumore che di solito insorge nel sacro o nella base cranica, cioè ai due estremi della colonna vertebrale e con un’incidenza dello 0,5 per milione di persone – ha iniziato per la prima volta in Italia un trattamento con protonterapia, una forma di radioterapia basata su fasci di protoni, anziché di fotoni, più precisa e meno dannosa per i pazienti. L’innovativa soluzione terapeutica è stata resa possibile grazie alla collaborazione tra Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (APSS) di Trento.

I dati ricavati da due studi clinici di Fase III del Children's Oncology Group, la più grande organizzazione mondiale esclusivamente dedicata alla ricerca scientifica sui tumori infantili, sembrano dimostrare che l'aggiunta di altri farmaci ad un regime di terapia per il tumore di Wilms comporti un miglioramento dei risultati nei bambini affetti da una forma ad alto rischio della malattia. La notizia è stata pubblicata sul sito internet cancernetwork.

In base ai risultati ottenuti in un recente studio preliminare, un nuovo trattamento sviluppato in collaborazione da AstraZeneca e Novartis per le tipologie di melanoma che presentano mutazioni del gene BRAF, sembra essersi dimostrato sicuro e pronto per essere testato in una potenziale sperimentazione di lunga durata.
Questo innovativo trattamento per il melanoma si basa sull'impiego dei farmaci dabrafenib e trametinib, prodotti da Novartis e somministrati in associazione con la terapia immunitaria MEDI4736, sviluppata da AstraZeneca. Nello studio in questione 50 pazienti affetti da melanoma sono stati trattati con diverse combinazioni dei farmaci ed hanno riportato sintomi come stanchezza, febbre e vomito, tutti eventi avversi che si sono rivelati gestibili. Una sintesi dei risultati sarà presentata durante il congresso annuale dell'American Society of Clinical Oncology, che si terrà a Chicago dal 29 maggio al 2 giugno di quest'anno.

In base ai risultati di uno studio retrospettivo presentato in occasione del meeting annuale dell’American Society of Pediatric Hematology/Oncology, i pazienti pediatrici affetti da leucemia mieloide acuta sembrano mostrare una ridotta incidenza di infezioni batteriche se sottoposti a profilassi con fluorochinoloni dopo la chemioterapia. Infatti, i bambini trattati con levofloxacina hanno mostrato una riduzione superiore al 50% dell’incidenza di infezioni da Streptococcus viridans rispetto ai bambini non sottoposti a profilassi dopo la chemioterapia, anche se il trattamento antibiotico non è riuscito comunque a eliminare l’infezione dall’organismo.

Gli esiti di uno studio randomizzato di Fase III sembrano dimostrare che il trattamento a base di trametinib unito a dabrafenib comporti un miglioramento della qualità della vita e una riduzione del dolore nei pazienti affetti da melanoma metastatico con mutazione BRAF V600. La combinazione dei due farmaci migliorerebbe notevolmente la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e la percentuale di risposta obiettiva rispetto al solo dabrafenib. Lo studio, denominato COMBI-d, è stato recentemente pubblicato sullo European Journal of Cancer.

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