Questo spiegherebbe il declino psicofisico e la difficoltà ad avere figli sani dalle sei mogli

Non guerre, epidemie o intrighi di corte ma una malattia rarissima, la sindrome di McLeod, potrebbe aver cambiato le sorti della dinastia inglese dei Tudor e, con questa, della storia d’Inghilterra. Di questa malattia, di cui sono descritti in tutto 150 casi, potrebbe infatti essere stato affetto il re Enrico VIII, famoso per aver fondato la Chiesa Anglicana ma anche per le sue sei mogli e per le molte amanti. Da queste Enrico VIII tentò di avere un erede maschio, poiché allora non si giudicava conveniente che una femmina ereditasse il trono; in questo sforzo, tuttavia, il re e le sue donne andarono incontro ad una serie di disavventure riproduttive tali da aver catturato l’attenzione della bioarcheologa Catrina Banche Whitley e dell’antropologo Kyra Kramer che, proprio partendo dai numerosi aborti avuti dalle mogli del re e dai tanti figli nati morti, hanno condotto una ricerca che è appena stata pubblicata sul The Historical Journal. La spiegazione data dai due a queste difficoltà e, insieme, al grave deterioramento fisico e mentale che ebbe il re dopo i 40 anni, sarebbe proprio da ricercarsi nel sangue e nei geni del re e riconducibile alle rarissima sindrome di McLeod, una malattia genetica del sistema di gruppo sanguineo Kell (un gruppo molto raro) e legata al cromosoma X. Una malattia ad esordio tardivo che colpisce solo i maschi. Proprio al manifestarsi di questa, dopo il 40 esimo anno, sarebbero riconducibili i disturbi fisici e psichici del re, mentre proprio al suo raro gruppo sanguineo sarebbero collegate le difficoltà riproduttive.

Una giovane barese, invalida al 100 per cento per una patologia comune è affetta anche da sensibilità chimica multipla (Mcs) e vive condannata all’isolamento. A denunciare la sua difficile situazione è stata Adele Dentice, del coordinamento nazionale del progetto civico «Per il bene comune». La notizia è stata riportata ieri dal quotidiano Gazzetta del Mezzogiorno.  La sensibilità chimica multipla è una malattia rara di cui ancora di sa pochissimo, pochi sono anche i centri che la trattano e che offrono ai pazienti strutture adeguate alle loro esigenze. Non è raro che chi è affetto da questa malattia si trovi in condizioni di non poter lavorare e non poter condurre una vita sociale: polveri, profumi, detergenti e talvolta anche onde elettromagnetiche causano crisi insopportabili.

Gabriella e Marisa sono due madri, le loro figlie sono affette da gravi malattie rare. Sono loro che in una intervista data a Disabili.com raccontano cosa succede quando si deve combattere contro una malattia rara e invalidante. Diamo qui solo qualche frase, vi consigliamo di leggere le interviste integrali, molto lunghe e articolate, su Disabili.com.

C’è anche lei a festeggiare i 35 anni dell’Associazione Laziale Onlus.

Valeria è nata con una malattia genetica, una di quelle che fino a un paio di decenni fa non lasciava speranza di varcare le porte dell’età adulta e che prometteva comunque una vita fatta di frequenti infezioni, gravi danni ai polmoni e continui ricoveri: la fibrosi cistica. Eppure a vederla oggi non si direbbe, Valeria è una donna felice e da poco madre della piccola Sofia. Il merito è dei passi da gigante che la medicina ha fatto in questi anni nella lotta alla fibrosi cistica, e di quella forza e quella  speranza che Valeria non ha mai abbandonato. “Quando mi sono aggravata – spiega – mi è crollato il mondo addosso, i miei polmoni non ce la facevano più, non riuscivo a respirare, mi sentivo sprofondare di notte. Quando mi si è posta l’opportunità di essere trapiantata, mi si è accesa questa lampadina. Oggi sono passati 13 anni e mezzo dal trapianto, e la vita è bellissima, la mia vita, la mia vita normale. Io sono anche mamma, che cosa posso avere di più! Alla fine ho avuto Sofia Iole e ho dato la speranza a tutte le persone che mi stavano intorno. Non bisogna mai piangersi addosso e dire non posso”. Valeria è oggi Consigliere del Direttivo della Lega Italiana Fibrosi Cistica – Associazione Laziale Onlus, che questa mattina celebra con un convegno il suo 35 esimo anno di attività.

Effettuato a Siena il primo intervento italiano di trapianto di midollo osseo per curare una grave malattia genetica, la MNGIE, cioè la sindrome da encefalopatia neurogastrointestinale mitocondriale, una malattia che si presenta tra l’adolescenza e l’età giovanile in casi molto rari, meno di uno ogni milione. L’eccezionale traguardo è stato raggiunto dal Centro Trapianti e Terapia Cellulare del policlinico Santa Maria alle Scotte, diretto dal dottor Giuseppe Marotta, con la preziosa collaborazione della Neurologia Malattie Neurometaboliche, diretta dal professor Antonio Federico e della sezione di Malattie Neurologiche Rare, diretta dalla professoressa Maria Teresa Dotti.

Oggi per stabilire se si è malati o meno di Anemia di Fanconi (AF) basta fare un test, ma non sempre è stato così: vent’anni fa per avere una diagnosi si andava all’estero e gli strumenti a disposizione non erano così precisi. Oggi il test al DEB, che prende il nome dal diepossibutano, dà risultati sicuri e si può usare anche per la diagnosi prenatale. Se si è arrivati a questi risultati molto lo si deve al laboratorio di genetica della ASL Napoli 1 e alla dottoressa Adriana Zatterale, che  lo dirige, che cominciò a fare ricerca sulla malattia negli anni ’80 quando si credeva che fosse ancora più rara di quello che è stato dimostrato poi.

Fosse nato in qualsiasi altra città d’Italia ora avrebbe sintomi così gravi da dover ricorrere alle cure intensive in ospedale e sulla sua cartella clinica, molto probabilmente, ci sarebbero complicanze severe, quali insufficienza renale ed epatica, capace quest’ultima di degenerare in tumore.
Ma Matteo, è il nome di fantasia con cui vogliamo chiamarlo, ha avuto la fortuna di essere nato in Toscana, dove all’Ospedale Pediatrico Meyer è stato scoperto, sviluppato e brevettato lo screening neonatale della Tirosenemia Tipo I, deficit enzimatico Tirosinemia Tipo I.

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